Carlo Tortarolo, Capo Redattore di Satisfiction ed Editorialista per Il giornale, ha definito il romanzo “Il banchiere nero e la bambina scomparso” un inferno di pietra, muffa e sangue rappreso.
Subito dopo mi ha sottoposto ad una serrata intervista, senza darmi il tempo di riprendere fiato, mettendomi sotto torchio, per le pagine di Satisfiction.
Carlo non mi ha lasciato spazio per improvvisazioni funamboliche, per parole ricercate e preparate, perché mi ha colto letteralmente per strada quando mi ha intervistato.
Lì, in mezzo alla gente, è come se mi avesse fisicamente stretto in un angolo per vuotare il sacco.
E così è stato.
Un grazie immenso.
IL BANCHIERE NERO E LA BAMBINA SCOMPARSA. INTERVISTA A IPPOLITO EDMONDO FERRARIO
Intervista a Ippolito Edmondo Ferrario
di Carlo Tortarolo
C’è un punto, nella narrativa nera italiana, dove il delitto smette di essere un gioco di logica e torna a essere una ferita sacra. È lì che si muove Ippolito Edmondo Ferrario, il più inquieto tra i narratori del noir civile, quello che non ha mai accettato la comoda anestesia del “genere”.
Nel nuovo romanzo Il banchiere nero e la bambina scomparsa, (Fratelli Frilli Editore, 2025, pp. 300, € 17,96) Ferrario scende letteralmente all’inferno. Non quello metaforico della psiche o delle metropoli, ma un inferno di pietra, muffa e sangue rappreso.
Lì, tra i resti di una bambina torturata e dimenticata, il suo protagonista Raoul Sforza — banchiere, dandy, ex eversivo e moderno inquisitore — riscopre che la colpa non muore mai: si decompone, ma respira.
Ferrario mescola il ritmo del thriller con la gravità della tragedia. Le sue frasi odorano di cenere e vino rosso, il paesaggio ligure diventa un altare gotico su cui vengono sacrificati l’innocenza e il potere. Triora, Realdo, le valli d’ombra dell’entroterra ponentino: luoghi che sembrano vivi, infettati da una memoria che non vuole morire.
Non c’è redenzione possibile: c’è solo la discesa — fisica, morale, spirituale — di un uomo che ha perso la misura del bene e del male. Raoul Sforza è un personaggio dostoevskiano trapiantato nel realismo allucinato di un’Italia che ha smarrito i propri fantasmi.
Parla come un Nietzsche in giacca Dormeuil, fuma sigari che sanno di lutto e si muove in un mondo dove anche la fede ha un prezzo di mercato.
Ferrario scrive con precisione chirurgica, ma la sua lama è bagnata nel mito. Ogni pagina è una soglia tra documentazione e allucinazione: il romanzo è ispirato al caso reale della giovane Maria Teresa Novara, eppure diventa altro, una liturgia nera sulla sparizione dell’innocenza.
C’è Shakespeare in epigrafe (“L’inferno è vuoto. Tutti i diavoli sono qui”), ma anche Wagner e Pessoa: non come citazioni, bensì come richiami di un mondo dove la letteratura è ancora un rito di dannazione.
Il banchiere nero e la bambina scomparsa è un noir che non dà pace, non intrattiene: ti osserva. È il libro che ti ricorda che certi orrori non passano, cambiano solo indirizzo.
Carlo Tortarolo
Il suo romanzo parte da una storia vera, che è quella di Maria Teresa Novara.
Corretto, perfetto.
Come si attraversa quel confine che c’è tra la cronaca e la letteratura senza tradire la verità e allo stesso tempo senza restare prigionieri?
Certo, è la seconda volta che io affronto un caso vero e l’ho adattato alle mie esigenze narrative. Ho rispettato completamente il caso vero perché, in particolare però quello di Maria Teresa Novara, essendo una bambina mi ha colpito molto.
È stato quasi un processo, il fatto di averlo incamerato in un mio romanzo, secondo me è stato un processo enorme col quale ho voluto proprio esorcizzare il male che trasuda da questa storia e quindi chirurgicamente l’ho preso, l’ho spostato in ambientazione, per esigenze narrative perché volevo tornare a raccontare l’entroterra Ligure, Triora, quindi c’era questa mia esigenza di parlare di un posto in particolare. Dopodiché io ho preso la storia e l’ho trasferita. Ho cercato di farlo con delicatezza, nel senso che quello che, quando si toccano questi temi, queste storie reali, si ha paura di sfruttarle quasi, non le dico per un fine narcisistico da scrittori. Cioè, aver trovato una bella storia e utilizzarla per farci un bel romanzo. Questo un po’ mi fa paura, non vorrei che il lettore pensasse una cosa del genere; quindi, ho cercato di raccontare tutti i lati più terribili di questa storia e poi il mio protagonista ha fatto tutto quello che secondo me una persona a modo dovrebbe fare, cioè portare una sorta di giustizia che arriva purtroppo in ritardo anni dopo.
È una storia terribile.
È terribile, poi comunque alla fine i mandanti dell’uccisione di questa bambina non sono mai stati trovati sostanzialmente, solo una persona è stata incarcerata, le indagini si sono arenate nonostante ci fosse questo magistrato che fino all’ultimo giorno della sua vita, così ho letto, ha cercato inutilmente però di trovare risposte, era disperato questo uomo.
Quindi è una storia terrificante. Adesso le chiedo questo, Raul Sforza è un personaggio che possiamo definirlo abissale, perché è un banchiere allo stesso tempo un ex eversivo, anche un uomo che è divorato dal suo odio. Secondo lei è un simbolo del potere marcio o un essere umano che tenta nella disperazione di salvarsi?
Bella questa domanda, molto bella, non per fare un complimento così, però mi piace immaginarlo come l’angelo caduto, quasi come un Lucifero portatore di luce che viene scagliato giù dal Paradiso e che comunque guarda verso il paradiso con una certa nostalgia. No, non l’ho mai pensato come un uomo logorato dal potere, anzi proprio per come l’ho ideato, l’ho strutturato, è un uomo che detiene il potere e lo sfrutta, ma alla fine anche per distruggere il sistema e nei vari libri si vede. Per esempio, nel secondo arriva a ricattare il sindaco di Milano, lo usa un po’ come una sua marionetta, ma alla fine c’è quasi un compiacimento di questo suo potere e gli fa fare delle cose assurde.
Quindi, lo vedo più come un uomo logorato dall’odio che cerca una forma di riscatto, è un personaggio abbastanza complesso, non è un semplice cattivo alla Diabolik, è un personaggio che alterna fasi di profonda malvagità con l’umanità, però è contrastato e dentro sicuramente ha un demone, non solo negli scantinati del suo palazzo, c’è il demone anche in lui.
Poi ci sono Triora e Realdo che sono dei luoghi reali ma che sono poi anche metafisici, che diventano protagonisti come lo sono alla fine degli esseri umani e le persone. Quanto deve la sua scrittura, il suo modo di raccontare al paesaggio e quanto il paesaggio ha la memoria di quelli che sono i delitti che contiene?
Io al paesaggio credo di dover tantissimo, cioè a me piace la vita contemplativa, sarà un azzardo, però i miei personaggi contemplano il paesaggio, a volte può essere amico, a volte può essere un semplice sfondo, però è una presenza costante che influenza anche le storie e gli stessi protagonisti delle mie storie.
In una delle prime scene in cui Raul arriva e risale la Valle Argentina, si ferma e vede in lontananza Triora, c’è proprio un’immagine quasi cinematografica di Raul di spalle, la valle, questo mare di nebbia, le cime e questo borgo medievale che incombe. Il paesaggio non è un semplice sfondo, è un qualcosa di estremamente concreto. Poi qui stiamo parlando di paesi, in particolare Triora, con storie che trasudano da ogni singola pietra delle case.
Triora è famosa per questo processo alle streghe che c’è stato nel 1587, il più grande processo che c’è stato in Europa, tra l’altro dove non si è bruciata una strega e sono morte per le torture, è durato due anni e ha sconvolto tutta la zona.
Oggi ha questa nomea di paese delle streghe, poi una nomea che è diventata anche turistica nel tempo perché la gente va su per quello, però il processo alle streghe è quasi una scusa perché, se uno visita il paese si accorge che è un paese con una storia millenaria e c’è qualcosa di più antico in quel paese lì, c’è come un’energia che si percepisce.
Adesso non voglio scendere in dettagli fantastici perché lì c’erano i druidi dei Celti, era un luogo particolare, questo no, però ci sono effettivamente dei luoghi particolari e Triora, secondo me, è uno di questi.
Ho attraversato le energie che i protagonisti anche del mio libro, lo stesso Raoul, percepiscono, è un luogo assolutamente esistenziale.
Quando vede invece Realdo a picco su questa falesia di rocce, impressionato, lui fa la battuta, dice: “uno non deve abitare qua, se soffre di depressione è finita, apre la finestra e si butta giù”, questo l’ho sempre pensato anch’io, perché fa veramente impressione, poi sono luoghi molto isolati al pari dei personaggi.
E quando immagino Raoul che si addentra in Realdo di fine autunno dove non c’è nessuno, sono luoghi spettrali che però hanno come un’anima, così si rivelano i protagonisti che interagiscono con i luoghi.
È praticamente una frazione di Triora?
Eh, sì certo, corretto, sopra Sanremo
Adesso le chiedo questo, il romanzo oscilla tra il noir e la tragedia sacra, ma lei pensa che oggi il male ha ancora bisogno della dimensione mitologica, della dimensione del mito per essere compreso, per essere capito?
Guardi, questa è una bella domanda, molto ma molto complicata, ma il male per me si può presentare sotto varie forme, non voglio entrare nei discorsi troppo complessi. Nel libro il male è molto umano, sono esseri umani che praticano il male e forse sono il volto stesso del male.
Quindi le direi, il male in questo libro è quello che avvince sostanzialmente l’essere umano, che lo mette in pratica e poi ci sono uomini che invece riescono a distinguerlo.
Sforza che alla fine sembrerebbe il portatore del male assoluto in questo caso, tra tutti i vari personaggi che ci sono nel libro sembra quasi un santo.
Pensando all’ultimo libro su Lovecraft di De Turris mi viene in mente che gli dèi antichi sono così distanti e disinteressati all’uomo da incarnare l’essenza dell’umanità. Nel senso che nella sostanza non c’è niente di più disinteressato è distante all’umanità dell’uomo e in questo io ci vedo un principio del male.
Sì, ho capito benissimo, poi Lovecraft io l’adoro, penso di aver letto tutto e riletto tutto più di una volta. Ha una dimensione molto profonda e insieme terra terra il male che si trova nell’umanità.
Adesso vi faccio una domanda, invece nel libro si respira un’aria un po’ da Requiem Civile, cioè la violenza, la burocrazia, l’ingiustizia. Cioè, è un atto d’accusa nei confronti dell’Italia che dimentica, oppure è un modo per darle voce?
Allora certo, adesso non voglio dire che il mio romanzo deve diventare simbolo di una lotta contro le varie ingiustizie. La storia italiana è costellata, penso anche in altri paesi, però la storia italiana è costellata da ingiustizie insolute, dalle stragi, ma anche da tante morti, come quella di Maria Teresa dove la giustizia ha annaspato e non è arrivata da nessuna parte sostanzialmente, ma così come per questa bambina per decine di altri casi.
Io in questo caso più che l’accusa sono passato al secondo passaggio, cioè la messa in pratica della giustizia, che è una giustizia naturalmente sommaria, ma questo è un po’ il risultato di quello che ho detto io.
Io ho dovuto esorcizzare il male di questa storia e l’unico modo per farlo era passare all’azione.. Io rivendico molto una formazione legata alla cultura cinematografica.
Quindi un po’ un Jack Reacher.
Io direi anche un Charles Bronson, ma mi piacciono un po’ quei personaggi così, anche non semplici, perché sarebbe riduttivo, però che la risolvono la questione, che a un certo punto passano all’azione. Dopo c’è anche il momento per pensare, per meditare.
Non sono quindi personaggi vuoti, semplici uomini d’azione, però persone che, quando a un certo punto la situazione non si risolve passano alle maniere dirette. Questo a me piace. Poi c’è l’ispettore Callaghan che è tutto un altro personaggio, però mi piacciono questi personaggi. Non le dico la passione del rambo della situazione, però è abbastanza umano che, quando ci si scontra con dei muri di gomma davanti a certe cose, la persona più tranquilla vorrebbe una risoluzione definitiva delle questioni e non trascinarsele per anni.
Anche davanti ai delitti più efferati si vorrebbe una sorta di giustizia rapida e io cerco di darla al lettore col mio personaggio. Poi gli ultimi capitoli sono molto truculenti, volutamente, perché alla fine il banchiere fa una sorta di massacro, però fa parte del personaggio.
Raoul Sforza ride di fronte alla morte, cita Pessoa. Lei come autore è più vicino alla sua parte demoniaca o alla nostalgia di redenzione?
La sua parte demoniaca -lei ha parlato dell’ironia, anche di fronte alla morte, con certe battute e tutto- io credo che si debba esorcizzare, almeno è il mio modo, anche un po’ di esorcizzare la morte, che resta il più grande mistero dell’uomo insieme alla vita.
Quindi mi piace il lato ironico. Se non c’è ironia non si sopravvive, secondo me, anche nelle situazioni a volte più drammatiche. Non l’ironia stupida, però a volte salva e quindi è un’ironia salvifica, anche quella brutale in certi momenti. Come nei film di Arnold Schwarzenegger, quelle freddure, dove magari ammazza 100 persone e poi la freddura fa passare tutto, è come un ammazzacaffè, fa scendere tutto.
Esatto, rende meno tragica la cosa drammatica.
Bisogna un po’ ridere anche di sé stessi.
Alla fine, passa l’idea che l’inferno non sia tanto un luogo ma una memoria collettiva. Cosa le rimane addosso, umanamente, dopo aver scritto questa storia?
Guardi, dopo aver scritto questa storia in particolare, mi sono sentito svuotato. C’è una sorta di stanchezza, ma non è una stanchezza per la stesura del romanzo. C’è una delle scene finali in cui, il banchiere prima di andarsene dalla valle va a visitare la tomba della ragazzina, che in questo caso è in un paese lì vicino a Triora.
Nella realtà credo che Maria Teresa Novara sia seppellita nel suo luogo di nascita, che è vicino a Canale d’Alba. E quando ho scritto questa scena mi sono sentito veramente stanco, una grande stanchezza.
Cioè, ero arrivato alla fine del libro, però era una stanchezza che non volevo più, basta, la storia l’avevo finita, avevo passato tutto questo percorso e tutto, ma ne sono uscito veramente stanco, mentalmente e fisicamente, forse perché è veramente ammorbante come storia; quindi, mi è entrata dentro e prima di ripensare ad un’altra storia ci ho messo un po’, insomma, questo è quanto.
Non mi ha lasciato indifferente, mi ha prodotto una stanchezza, che non è fisica ma mentale.
Nel senso che avrebbe voluto fare di più, oppure perché si sentiva comunque di aver fatto tutto quello che poteva fare?
Allora c’è un certo punto nel libro in cui Raul si comporta diversamente rispetto ad altri libri, dove quasi dice: “giustizia è fatta” e se ne va via soddisfatto. In questo caso sì, giustizia è fatta, però c’è anche amarezza, cioè lui stesso dice, ma si pone la domanda: “ma forse è stato davvero tutto utile quello che ho fatto? Sì, ho ammazzato gli ultimi personaggi di questa storia e tutto, però alla fine la bambina è morta, io sono arrivato dopo 40 anni dei fatti e quindi, cioè a chi giova tutto questo?” Con una certa stanchezza, in tutti i libri ha ammazzato, ha sempre fatto di tutto e di più, qui uccide però, accusa un po’ il colpo.
Diciamo che non c’è stata una catarsi perché il male era troppo grande.
Sì, ecco quando io ho scritto quella scena lì l’ho immaginata con una colonna sonora, lui ascolta questa canzone e tutto, quando arriva al cimitero saluta la bambina a suo modo e mi sono commosso nello scrivere quella scena.
Così anche come mi era successo anche nel quarto romanzo dove si parlava di un bambino e della Shoah a Venezia, tutta una storia vera.
Anche lì mi ha pesato, ma io credo che questa sia un po’ la mia debolezza nei confronti di tutte quelle vicissitudini che hanno per protagonisti i bambini, perché brutalmente, quando leggo di uno della mia età che fa una brutta fine mi spiace, però non mi sento così coinvolto.
Ma il male ai bambini è proprio una cosa che per me è intollerabile e quindi non riesco a darmi una spiegazione. Per tutto, anche quando sono malati.