Il banchiere, il Giappone ed il Sumo

Si sintonizzò in streaming su uno dei canali giapponesi che trasmettevano sport e che seguiva regolarmente.

Fu fortunato.

Stavano trasmettendo le immagini del torneo di sumo che si stava svolgendo in quei giorni a Osaka, in Giappone.

Il banchiere fu colto da un incontenibile entusiasmo.

Si versò un bicchiere di torbato, prima di godersi gli scontri tra i rikishi, ovvero i lottatori, determinati a salire di posizione nella graduatoria chiamata banzuke.

Chi fra loro fosse riuscito ad entrare nella classifica dei primi cinquanta campioni avrebbe avuto il diritto ad un vitalizio.

Il banchiere sembrava ipnotizzato da quei corpi enormi e seminudi, coperti dal solo mawashi, il perizoma tradizionale, che si fronteggiavano sul dohyo.

Amava quell’antica arte marziale perché era la sola di cui gli occidentali non erano riusciti impadronirsi trasformandola in uno sport di massa.

Anche dal punto di vista puramente estetico i rikishi erano la perfetta antitesi del modello occidentale, rappresentato genericamente da muscoli ipertrofici sfoggiati con spasmodica ossessione in ogni occasione, dalle palestre alle spiagge, passando per la televisione.

I rikishi erano un’icona di pura e virile imperturbabilità, incarnavano l’essenza di una cultura antica che affondava le sue radici nello shintoismo.

Tutto ciò era fonte di ammirazione per il banchiere.

La ritualità che precedeva gli incontri veri e propri lo ipnotizzava.

Nel sumo Raoul coglieva tutta la grandezza e l’unicità del Giappone, paese che amava profondamente.

Tratto da I diavoli di Bargagli di Ippolito Edmondo Ferrario, Fratelli Frilli Editori, 2022