Dall’Archivio. Gli stranieri affamati alimentano la criminalità. Intervista a Luciano Lutring

Dall’Archivio. Gli stranieri affamati alimentano la criminalità. Intervista a Luciano Lutring

“Gli stranieri affamati alimentano la criminalità”

Lo dice Luciano Lutring, l’ex “solista del mitra”

Ippolito Edmondo Ferrario

Secolo d’Italia, 7 novembre 2007

Luciano Lutring, il famoso “solista del mitra”, considerato negli anni Sessanta il nemico numero uno di banche e portavalori, ha da tempo cambiato stile di vita e opinioni sulle cose. Con un passato burrascoso alle spalle e un lungo conto con la giustizia completamente saldato, oggi è un padre di famiglia, ha due figlie adolescenti, un divorzio alle spalle e svariati interessi. Al “machinepistol” che un tempo trasportava elegantemente nella custodia di un violino, oggi Lutring preferisce sia i pennelli (è un apprezzato e talentuoso pittore), che la penna. Ha pubblicato fino ad oggi alcuni libri, tra cui un’intensa autobiografia Catene spezzate (Agar Edizioni) in cui Lutring si racconta e mostra tutto il suo lato umano, i suoi drammi, le sofferenze, il suo travagliato cambiamento. Oggi a settant’anni Lutring ha voglia di comunicare, di parlare di quei tempi andati, di esprimere la sua sulla malavita organizzata e non, sull’emergenza sicurezza, sulla paura nelle metropoli. Tanto che nei giorni scorsi lo scrittore Andrea G.Pinketts lo ha presentato al Sud Dinner Bar di via Solferino a Milano, proprio nelle vesti di scrittore. Del resto, soloun giallista scapestrato e “scapigliato”, per dirla alla milanese, come Pinketts, che ha condotto in passato indagini sulla mala rischiando in prima persona, poteva presentare il “solista del mitra” per comprenderne appieno tutto il lato sofferto e genuino di questo personaggio che ha davvero molto da dire.
Luciano Lutring scrittore. Come ha iniziato questa sua seconda, per così dire, carriera?
E’ una storia lunga, iniziata la sera del 1 settembre del 1965 quando mai avrei pensato di finire crivellato di proiettili della Sureté francese. Assieme a due miei complici, un belga ed un algerino, stavamo rientrando a Parigi, quando quest’ultimo disse: “Ho poca benzina nel serbatoio”. Più volte rimproverai l’algerino di avidità. Anche se la macchina sulla quale viaggiavamo era rubata, bisognava sempre tenerla controllata. Fermata la vettura ad una stazione di servizio, nell’ombra del parcheggio sostava una Pegeaut della Polizia criminale poichè quella stazione di servizio era stata più volte rapinata. Costoro speravano che qualcuno ripetesse quella losca operazione per saltargli addosso di sorpresa. Noi non essendo rapinatori di benzinai, non ci facemmo caso. Quando accanto alla portiera trovammo due corpulenti poliziotti che ci chiesero i documenti, l’autista impaurito ingranò la marcia lasciandoli a bocca aperta. L’inseguimento per le vie di Parigi durò qualche minuto, poi un grido dell’algerino ci accapponò la pelle: “Siamo a secco. Li abbiamo alle spalle. Si salvi chi può”. Io essendo seduto sui sedili posteriori mi lanciai fuori della portiera. Gli altri due perdendo tempo a cercare le pistole sotto i sedili. Mentre fuggivo zigzagando nel buio della notte, echeggiarono diversi spari. Un agente inseguendomi, vedendo che non mi fermavo sparò altri colpi e due di questi mi centrarono nella schiena. In un primo istante non sentii dolore. Continuai a fuggire. Altri colpi mi centrarono nella gamba desta e nel braccio sinistro. Persi una delle due pistole. Sparai pure io in alto per intimidire l’inseguitore. Ma questo non mollò la sua preda. Un’ora dopo mi trovarono sotto un portone morente. Fui trasportato in sala operatoria. Per quaranta giorni rimasi in coma. Un’ infezione di piombo era il problema più grave. Alla fine superai pure quella e alcuni giorni dopo mi trasportarono nel tetro carcere della Santé di Parigi rinchiudendomi nella vecchia sezione di alta sorveglianza. Il mio isolamento durò 5 anni e 8 mesi. Poi il processo e la condanna a 20 anni di lavori forzati. Fu così, che iniziai a scrivere e a dipingere per vincere la solitudine e non impazzire dal silenzio che regnava intorno a me. Solo il rumore di porte sbattute e chiavistelli addolciva quel penoso silenzio. Ciò malgrado riuscii a fare uscire clandestinamente su dei rotoli di carta igienica la storia della mia vita. La casa editrice Longanesi la pubblicò con un titolo appariscente Il pianista del mitra. Nel 1966 e il regista Carlo Lizzani, attratto dalla risonanza della cronaca, ne trae un bel film, intitolandolo Lutring, svegliati e uccidi…
Diventò in qualche modo una leggenda nell’immaginario popolare e da rotocalco dell’Italia della seconda metà degli anni Settanta…
La mia vita lo divenne, ma controvoglia. Da piccolo balordo di periferia passavo a venir rappresentato come una gang-star internazionale. Da ladruncolo che spaccò a Milano una vetrina di una pellicceria per regalare a sua moglie Yvonne un cincillà bianco, a “ pericolo pubblico numero 1” che assaltava banche e gioiellerie nelle città più lussuose. Ormai facevo parte dell’informazione più delirante. Un giorno ero considerato un “bandito romantico” che regalava fiori alle commesse derubate, il giorno dopo la primula rossa che sfuggiva alle polizie di tutta Europa. Fiumi di inchiostro attiggevano al mio nome. Ero diventato una fonte di commercio. Molte volte mi accusavano di aver rapinato banche nello stesso giorno e a poche ore di distanza in nazioni diverse.
E oggi, nel novembre del 2007, chi è Luciano Lutring?
Oggigiorno sono un cittadino che rispetta la legge, mi comporto onestamente come debbono fare tutti. Un po’ di tempo fa ho trovato un portafoglio che una ragazza aveva smarrito. L’ho consegnato alla Polizia con documenti e 382 euro di soldi. Non ho ricevuto neppure un ringraziamento.
Che progetti ha per il futuro?
Il mio futuro è ormai pianificato. Vivo con le mie gemelline Natasha e Katisha. Mi sono separato dalla loro madre quindici anni fa ed il tribunale di Verbania mi ha concesso l’affidamento. Ora le “bambine” anno quasi venti anni e prima o poi spiccheranno il volo nel mondo della vita. Di me conoscono tutto. Bene e male spesse volte vanno a braccetto. Sta ad ognuno di noi a scegliere la strada giusta.
Cosa ne pensa del problema “sicurezza”, una vera e propria emergenza politica e sociale che assilla i nostri tempi e i nostri giorni?
E’ un problema troppo grande e non facile a discutersi. Una cosa però va detta e sottolineata: sono troppi gli stranieri disperati e affamati che sguazzano nei bassifondi della delinquenza. E un cane affamato… morde. Uno sciacallo ruba senza rispetto e non guarda se l’individuo che ha di fronte è giovane o vecchio, povero o malandato. Io ho sempre rispettato le regole del codice morale. Vecchi e bambini, pensionati e indigenti li ho sempre rispettati e – nella mia precedente vita – spesso ho allungato pure mazzette di soldi a loro favore. Il mio gesto non era un obolo caricatevole per conquistare un posto in paradiso. Mi è sempre piaciuto più dare che ricevere. Forse il mio cuore mirava ad altri progetti. Ancora oggi mi chiedo: “Se mia madre avesse accettato Yvonne in casa sua, invece di chiuderle le porte, forse non sarei diventato un bandito…”
Qualche anticipazione sul suo prossimo libro. E’ una domanda obbligatoria per ogni scrittore che si rispetti.
L’ultima mia fatica letteraria verrà pubblicata ai primi di gennaio 2008 per Agar Edizioni. Sarà la triste storia di un legionario, tradito nei sentimenti e non solo. La sua avvocatessa di origine “pied noir” cercherà di salvarlo, ma il titolo la dice lunga:L’amore che uccide. Entrambi i personaggi moriranno dopo una lunga lotta con i magistrati che, non accettando l’ O.A.S. del famoso generale Salan in conflitto ideologico con De Gaulle, decidono – come è stato storicamente – di eliminare tutta l’organizzazione. E’ un thriller dolce, nero, rosa e politico, e si rifà a fatti accaduti molti anni fa, quando ero detenuto alla Santé di Parigi.
Ippolito Edmondo Ferrario, classe 1976, vive e sopravvive a Milano, dove si diletta a fare il mercante d’arte. Giornalista e scrittore, ha pubblicato numerosi libri dedicati a Triora, il famoso paese delle streghe, di cui è cittadino onorario, i noir Il pietrificatore di Triora col quale ha dato vita al detective Leonardo Fiorentini, suo alter ego, e Il collezionista di Apricalee le stelle grondano sangue (rispettivamente Fratelli Frilli Editori, 2006 e 2007).
Infine riporto qui di seguito un commento, scritto dallo stesso Lutring, sulla mia intervista. Mi rimane il rammarico di non essere mai andato a trovarlo di persona. Ciao Luciano, ovunque tu sia.
lutring luciano ha detto…Caro IPPOLITO,
ti ringrazio per il tuo articolo sul SECOLO D’ITALIA che ha reso umana la mia immagine.
Si… Ho sbagliato nella mia gioventù diventando bandito per amore…Per quasi sette ani sono stato uccel di bosco in giro per l’europa… Poi la capitolazione a Parigi… Ferito a morte… Duri anni di carcere… Tanta sofferna… Molta disperazione… Tanta voglia di riemergere… Tornare indietro… Farsi perdonare… Rifare una nuova vita…
E’ stata dura, ma ci sono riuscito…
Due grazie Presidenziali mi hanno ridato la libertà… Oggigiorno vivo serenamente sul lago Maggiore con due figlie che il tribunale di Verbania mi ha affidato dopo la separazione con mia moglie… Dipingo e scrivo…Da trentanni non ho preso più neppure una multa… Rispetto la legge e affronto la mia vita verso il viale del tramonto…I miei settantanni mi aiutano a capire molte cose… E’ anche per questo che molte volte consiglio i giovani ad apprezzare la libertà, poichè una volta perduta si rischia di cadere nel vortice della perdizione senza più possibilità di tendere le braccia al cielo…Concludendo, ti mando un cordiale salutone.
Oggi e sempre, vivo o morto ti
ringrazio.
LUCIANO LUTRING ex… ex solista del mitra

Fonte: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.it/2007/11/luciano-lutring-da-bandito-romanziere.html

Dall’Archivio. Branduardi: “Il futuro ha un cuore antico…”

Dall’Archivio. Branduardi: “Il futuro ha un cuore antico…”

Branduardi: “Il futuro ha un cuore antico…”

Intervista con il menestrello della nostra canzone d’autore.

Ippolito Edmondo Ferrario

Secolo d’Italia, 22 maggio 2008

Si inaugurerà ufficialmente il prossimo 26 maggio a Varese la seconda edizione del festival “Insubria, terra d’Europa”, un grande evento culturale dedicato alla cultura, alla musica e all’ambiente di questa porzione di territorio, l’Insubria appunto, che si estende tra le province di Varese, Como e Milano, organizzato dall’Associazione Culturale Terra Insubre. Ad aprire la kermesse sarà il concerto di Angelo Branduardi “Alle radici dell’Europa”, che torna con i suoi più grandi successi per raccontare di un passato lontano, carico di storia e di spiritualità che sembra più che mai tornato di attualità. D’altronde il messaggio del cantautore nato a Cuggiono, in provincia di Milano, classe 1950, è chiaro: “In questi tempi di globalizzazione, se da una parte dobbiamo aprirci ai mondi più lontani, il rischio negativo è quello di perdere la nostra identità e di mutare la globalizzazione in mercatizzazione. Credo che il lato positivo della questione sia imprescindibile dalla salvaguardia culturale delle nostre origini, dei nostri valori e della nostra storia. In pratica non c’è futuro senza radici” ha detto Branduardi raggiunto telefonicamente. Branduardi ha ricordato i suoi esordi negli anni 70, in un’epoca musicalmente prolifica, ma certamente condizionata dalla politica, dall’impegno tutto a sinistra che tendeva a escludere le diversità e chi non faceva della musica una questione di militanza.

“All’epoca, esattamente come oggi, ho seguito, dopo gli studi di Conservatorio, il mio istinto, la mia necessità di ricerca spirituale che non ho mai pensato di mascherare per bruciare i tempi o per avere dei vantaggi. Un po’ come il mio naso che in tanti anni non mi sono rifatto! Nel marasma di allora ero una mosca bianca, ma a distanza di anni il mio lavoro è stato riconosciuto come valido. Ho interpretato quello che sentivo e che vedevo, anticipandolo sui tempi. Si è solo trattato di aspettare, come ogni vero artista dovrebbe saper fare. Vedere oltre”. E con una carriera come quella di Branduardi non si può che dargli ragione, avendo effettivamente dato lo spunto ad un intero filone di cui si può considerare il capostipite. Autentico menestrello dei giorni nostri, Branduardi ricorda con grande nostalgia un altro grande artista dei nostri tempi, da pochi anni scomparso: “Da adolescente compravo i vinili di De Andrè. Con lui ho condiviso un’amicizia personale e la medesima ricerca di tematiche legate al mondo dei trovatori e delle nostre radici lontane. Ho sempre nutrito nei suoi confronti una grande stima. Anche lui era in cerca di risposte esistenziali che guardavano verso Dio. Sarebbe retorico dire che dopo di lui si è sentito un immenso vuoto”. E sull’onda del ricordo di De Andrè, Branduardi dice che attualmente la sua affinità musicale è tutta per Franco Battiato. Il prossimo concerto che si terrà a Varese nel titolo stesso “Alle radici dell’Europa” contiene un esplicito richiamo proprio alle nostre radici, al concetto di identità dei popoli, identità che rischiamo di dimenticare per andare verso un futuro incerto. Un concetto di Europa che è sempre stato sostenuto dalla destra e che risulta ben lontano dall’Europa dei banchieri e delle multinazionali.

La manifestazione, inaugurata dal concerto di Branduardi, è tutta volta a valorizzare proprio il patrimonio culturale dell’Insubria, zona in cui la Lega Nord da anni raccoglie moltisissimo consenso. Abbiamo chiesto a Branduardi che cosa pensa dell’idea di federalismo del movimento di Umberto Bossi: “Non è mio compito insegnare, assurgere al ruolo di maestro come magari fanno altri artisti. Mi sento una persona che ha da imparare su tematiche che non le competono. Piuttosto preferisco affidare alla musica il mio messaggio, il mio modo di vedere le cose. Questo è il linguaggio che mi compete. Giudico positivamente l’idea di federalismo se vuol dire preservare le identità e mantenere vivi certi valori. Non spetta a me dimostrarne la validità, ma è la storia che ne dimostra la positività a cominciare dal pensiero di Cattaneo in poi”.

Branduardi suonerà al Teatro Apollonio, in piazza Repubblica, con inizio alle ore 21.00, proponendo brani dell’album “L’infinitamente piccolo”, seguiti dall’esecuzione, sulle note del suo inseparabile violino, dei suoi maggiori successi come “Alla Fiera dell’Est”, “Cogli la prima mela” e altre canzoni che hanno tutte la stessa impronta di tenace spiritualità senza mai però scadere nel proselitismo o nella cieca fede religiosa.

“Mi sento molto più simile a San Francesco piuttosto che ad un crociato. Ho dedicato al santo predicatore parte dei miei lavori, ma ben pochi conoscono il suo lato più umano e vulnerabile, quello dell’uomo tormentato che era in continua ricerca di domande. In questo aspetto mi sento molto simile a lui, non ho certo una fede a prova di bomba”. Gli abbiamo chiesto quale sia il suo rapporto con Dio: “Direi che è tutto nella musica. Tutti gli etnomusicologi sostengono che la musica fin dai primordi ha avuto a che vedere con la spiritualità, con quel “vedere oltre” degli artisti. I primi musicisti della storia dell’uomo furono gli sciamani, gli stregoni. La musica è una forma di ricerca spirituale che coinvolge il corpo e la mente, che mette d’accordo il diavolo e l’acquasanta. Un vero musicista non può certo definirsi ne laico ne laicista”. Le parole di Branduardi fanno pensare invece a tutti gli artisti che sono molto distanti da questa sua concezione tanto antica quanto nobile del mestiere, ma questo non è per lui motivo di critica nei confronti degli altri: “Ci troviamo in Italia di fronte a tre generazioni. La mia, fatta da artisti cinquantenni, una di ventenni emergenti e un’altra di quarantenni che vengono proposti come eterni ragazzi. Di fronte ai successi enormi di classifica e delle vendite, credo che comunque la qualità ci sia, magari poca, ma c’è. Non si può troncare giudizi netti di fronte a certi numeri. Tra gli artisti della mia generazione stimo tantissimo, come già detto, Franco Battiato, ma anche Paolo Conte e Francesco De Gregori. Francesco è una persona seria, fuori dagli schemi. Magari fin troppo seria, ma va bene così”. Certamente anche Branduardi a proposito di serietà non scherza, nel senso che raramente è protagonista del gossip o di trasmissioni televisive: “Ho una vita sociale come tutti e in questo caso faccio vita mondana. Sono amico dello scrittore Faletti e anche di altri, ma non mi piace stare troppo sotto i riflettori. E poi, se fai sentire un po’ la mancanza al tuo pubblico, credo che poi abbia più desiderio di rivederti”. Fino al 1 giugno saranno ancora visitabili due mostre correlate alla manifestazione: “Volti d’Insubria” e “Il Ducale: Bandiera di Insubria”, esposizioni inaugurate alla presenza del Sindaco di Varese, Attilio Fontana e dal curatore della mostra “Volti d’Insubria”, Mario Castiglioni, e dell’artista Luciano Lutring, il famoso “solista del mitra”, un tempo rapinatore con la passione per le belle donne e le auto sportive, e oggi affermato scrittore e pittore di una certa fama. Castiglioni espone trenta ritratti, ognuno dei quali ha come didascalia il nome del personaggio, la sua professione, ed una piccola frase di corredo: il “fil rouge” della mostra è lo sguardo antropologico che intrappola, al di là dell’obiettivo, storie personali di cittadini insubrici, in un approccio che diventa poi storico e sociale. Attraverso l’attenzione ai cittadini sono illustrate le peculiarità delle province dell’Insubria. Si tratta di ritratti ambientati, collocati nel tempo, ma soprattutto nello spazio. Professioni intellettuali e arti manuali, dove la territorialità compenetra il lavoro e il lavoro forgia la materia.

Per non citarne che alcuni, sono raffigurate le professioni d’acqua, con il guardia parco in barca del Ticino, il canoista olimpionico, il capo timoniere del lago Maggiore, il pescatore del lago, quelle di terra, con l’erborista di montagna, l’apicoltrice, il veterinario di fattoria, e ancora i mestieri di fuoco, dove il fuoco sapientemente incanalato permette la creazione artigianale del vetraio, e persino d’aria, nel volteggiare aggraziato della ballerina. Non potevano poi mancare gli artisti: due pittori, l’uno ex rapinatore, l’altro frate cappuccino e lo scrittore medico condotto.

Dall’Archivio. Pozzetto: negli anni ’70 non facemmo come gli altri

Dall’Archivio. Pozzetto: negli anni ’70 non facemmo come gli altri

Pozzetto: negli anni ’70 non facemmo come gli altri

A colloquio con l’attore a 40 anni dall’esordio in tv

Ippolito Edmondo Ferrario

Secolo d’Italia, 16 febbraio 2008

Ha sessantotto anni, ma non li dimostra. Renato Pozzetto, una delle icone del cinema comico italiano, torna a incantare con la sua comicità surreale in uno spettacolo itinerante intitolato “Nuotando con le lacrime agli occhi” che ha già toccato diverse città italiane e che si prepara ad arrivare al Teatro Sociale di Soresina il prossimo 22 febbraio. L’acclamata coppia Cochi e Renato torna così a far ridere e a riflettere andando a riproporre il vastissimo repertorio di gag, battute e canzoni, alcune delle quali scritte da Jannacci e per l’occasione accompagnate dall’orchestra Godfellas. Abbiamo incontrato Pozzetto nel suo studio nel centro di Milano, poco prima di partire per una tappa del suo spettacolo di cui l’ex ragazzo di campagna così dice: “In Nuotando con le lacrime agli occhi raccontiamo un po’ la fatica di stare la mondo, la battaglia per sopravvivere nella società e le lacrime di molti disperati che raggiungono Lampedusa molto spesso nuotando senza neppure arrivarci”. Una volta accomodatici, accanto ad una moto Guzzi d’epoca (l’attore ha il pallino dei motori) Pozzetto ripercorre gli anni del primissimo esordio praticamente in sordina e di una rapida ascesa.

“Vengo da una famiglia modesta, mio padre era impiegato, padre di quattro figli; sono nato in un periodo, quello della guerra, che ha messo a dura prova le famiglie e la gente, ma che poi è stato lo sprone per tornare a vivere” racconta ricordando la sua infanzia e la sua inclinazione artistica condivisa fin da subito con l’amico Cochi Ponzoni: “Io e Cochi ci divertivamo ad andare suonare in osteria, a fare tardi la sera e a stare con gli amici. Fin da ragazzo mi piaceva l’ambiente dei creativi, dei pittori e delle gallerie d’arte. Ero amico di Crippa, Lucio Fontana, Piero Manzoni. Fu proprio in una galleria d’arte di Milano in via Lentasio che esordimmo con le nostre canzoni: si chiamava La Muffola e la particolarità era che teneva aperto la sera fino a tardi grazie a dei divertentissimi vernissage serali e notturni organizzati dal giornalista Mantegazza. Fu un successo che ripetemmo e poco dopo approdammo al mitico Derby”. Il Derby appartiene alla storia della cosidetta “Milano da bere”, vera icona della voglia di divertirsi dei milanesi degli anni 60’. “Quando arrivammo al Derby conoscemmo un po’ tutti i nostri idoli, musicisti, comici, cantanti. Così insieme a Lino Toffolo, Bruno Lauzi e a Jannacci mettemmo in piedi il mitico Gruppo Motore che poco alla volta iniziò a gestire tutti gli spettacoli del Derby”. Verrebbe da chiedersi se Pozzetto rimpianga la Milano di allora, ma l’attore non è un tipo incline alla nostalgia del tipo “Si stava meglio quando si stava peggio”: “Milano usciva dagli anni della ricostruzione e la città aveva voglia di vivere e di divertirsi. Ma quella è una fase, una delle tante, che fanno parte di una città. Ne meglio, né peggio di oggi. Anzi per i giovani di oggi ci sono molte più opportunità per divertirsi, per avere degli spazi in cui socializzare e magari mettere a frutto il proprio talento artistico” dice Pozzetto forte di una carriera cinematografica così ricca di film di successo che oggi sembrerebbe irripetibile. Qual’è quindi la ricetta del suo successo? “Certamente ho colto le giuste occassioni e sono stato anche fortunato per le offerte che mi venivano fatte. Certo le soddisfazioni sono state tante, oltre ai film, quello di essere primi in classifica con tante canzoni e di raccogliere molto successo in teatro. Naturalmente il tutto ce lo siamo conquistati da soli, senza l’aiuto di nessuno” racconta Pozzetto che non ha comunque peli sulla lingua su certe scorciatoie prese da altri personaggi dello spettacolo. “Negli anni Settanta in molti, schierandosi politicamente in modo aperto, hanno senza dubbio avuto dei favori. Io e Cochi non ci siamo mai interessati di politica e questo per noi è stato un bene. Ancora oggi tra di noi ne parliamo poco, e forse abbiamo pure idee differenti, ma per noi non è mai importato”. Naturalmente questa apoliticità dell’attore non gli precluse il divertentissimo ruolo di protagonista nel film di Steno “La patata bollente”, in cui Pozzetto recitava la parte dell’operaio comunista e sindacalista Bernardo Mambelli, soprannominato Gandhi alle prese con un ragazzo gay, interpretato da Massimo Ranieri, perseguitato sia dai fascisti che dai comunisti. Il film, vero precursore del tema delle coppie gay, mise perfettamente in scena l’intolleranza che anche la sinistra, progressista a parole, provava in pratica verso gli omosessuali. Durante lo stesso governo Prodi i Dico e i Pacs sono stati un’autentica “patata bollente” per la sinistra che ancora una volta ha mostrato la scarsa sensibilità al mondo omosessuale. Il film fu un grande successo, né più ne meno di altri titoli come “Il ragazzo di campagna”, “Un povero ricco”, “Mia moglie è una strega”. Gli chiediamo se in questo momento di grande revival del cinema italiano di quegli anni, anche lui non abbia pensato a girare un sequel dei suoi successi: “Credo che quei film siano stati dei successi perché raccontavano di un periodo specifico, raccontavano storie vere. Riproporre un qualcosa come semplice operazione commerciale, almeno per quanto riguarda me, non mi è mai interessato. E poi, detto fra di noi, i ragazzi di campagna di oggi non ci sono più. Il divario tra i due mondi, quello di città e quello di campagna, è pressochè sparito. I ragazzi che trasportavano il letame con l’Apecar si sono estinti, ma hanno moderni trattori con aria condizionata e autoradio”. Certo, l’idea di tornare a fare cinema non è del tutto esclusa…”Tornerei a girare solo di fronte a un segnale di curiosità nei miei confronti e per propormi qualcosa di nuovo. Le strade già percorse non mi piacciono”. Pozzetto vive praticamente con il cellulare e l’orologio in mano e la voglia di fare il nonno non gli impedisce di continuare a lavorare e a divertirsi: “Oggi più che mai lavoro e ho realizzato diversi miei sogni. Carriera artistica a parte, ho una società che si occupa di trasporti aerei per l’ospedale San Raffaele di Milano. Un lavoro bellissimo che nasce dalla mia passione per il volo!”. Pozzetto infatti, oltre a gestire la società, è pilota di elicotteri e tutto quello che ha un motore lo intriga: “Mi sono sempre piaciute le macchine d’epoca e le moto. Un vero e proprio amore che ho avuto la fortuna di coltivare”. “Ma un sogno nel cassetto le è rimasto?” gli chiedo mentre, sentendolo parlare, mi scorrono di fronte le sue imperdibili gag: “Forse a livello cinematografico ho il rimpianto di non esser riuscito a lavorare con certi grandi registi italiani che nel periodo in cui arrivai io erano già scomparsi, anche se sono riuscito a lavorare con Risi e Lattuada. Era però già un mondo cinematografico che stava morendo. Dunque non voglio lamentarmi”. E sul cinema italiano attuale, Pozzetto è di poche parole…”Sarà una deformazione professionale, ma credo che siano quarant’anni che non vado al cinema!!” mi confida ridendo. “Ma qualche rimpianto, grandi registi a parte, ce l’ha?” insisto. ”Sì, aprire un’osteria sul Lago Maggiore. Non è detto che prima o poi non lo faccia”.

Dall’Archivio. Se l’Inquisitore diventa eroe (e detective)

Dall’Archivio. Se l’Inquisitore diventa eroe (e detective)

Se l’inquisitore diventa eroe (e detective)

Ippolito Edmondo Ferrario

Secolo d’Italia, 6 ottobre 2007

Valerio Evangelisti torna a ottobre in libreria con il nono episodio del ciclo di romanzi dedicati alla figura storica dell’inquisitore spagnolo Nicolas Eymerich (1320-1399). “La luce di Orione” (Strade Blu Mondadori, www.eymerich.com) si prospetta come una nuova allucinata e allucinante avventura del domenicano che ha consacrato Evangelisti non solo in Italia, ma nel mondo. Tanto per fare un esempio i suoi romanzi e i racconti sono tradotti in francese, spagnolo (per la Spagna e per il Messico), tedesco, portoghese (per Brasile e Portogallo), croato, serbo, greco, ceco, slovacco, russo, rumeno, ebraico, polacco, inglese. Nonostante l’indubbia fama, Evangelisti da sempre segue un modello di vita piuttosto ritirata. Non frequenta i salotti mondani e tantomeno lo si vede in televisione. Per avere qualche anticipazione sul suo nuovo romanzo lo abbiamo intervistato.

-Qualche anticipazione sul nuovo romanzo “La luce di Orione”. Quale sarà il tema centrale di questa nuova storia?

Eymerich, nel romanzo, parte per ciò che resta dell’impero bizantino, su cui grava la minaccia degli Ottomani. I sovrani, in piena decadenza, contano per il loro riscatto su una creatura che tengono prigioniera, e che forse ha un nesso con misteriosi giganti che ogni mattina sorgono dal mare. L’inquisitore saprà svelare la chiave del mistero.

-L’inquisitore Nicolas Eymerich e lo scrittore Valerio Evangelisti: come è nato questo binomio?

Eymerich rappresenta il peggio di me, la parte oscura. Me ne accorsi mentre collaboravo alla stesura di un manuale di psicoterapia, giunto alla voce “la sub-personalità schizoide”. Decisi di spostare in un personaggio letterario ciò che di patologico esisteva in me.

-Crede che i lettori la identifichino con Eymerich?

No, o almeno capita raramente. Sono di indole tutto sommato cordiale, non spavento nessuno, non ho mai fatto del male ad anima viva. Certo, bisogna conoscermi di persona, e io mi faccio vedere poco in giro.

-Che cosa c’è di Valerio Evangelisti nella figura dell’inquisitore?

Una certa asocialità. Ma mentre Eymerich cerca adepti, e di modellare la società sul suo esempio umano, io tendo piuttosto a farmi i fatti miei. Somiglio maggiormente a un altro mio personaggio, il pistolero Pantera.

-Di recente ha partecipato a Trieste a un convegno sull’Inquisizione. Che cosa ne pensa dell’Inquisizione e del suo operato?

Largamente condannabile, sebbene il Santo Uffizio non sia stato colpevole di tutti gli eccessi che gli vengono attribuiti. Va poi tenuto presente che la Chiesa cattolica tentava di sostituire, con mezzi rudi, l’impero romano venuto meno. Ciò non toglie che coartasse le coscienze. Erede diretto dell’Inquisizione è stato il sovietico Vishinskij.

-La trama narrativa dei romanzi del ciclo di Eymerich si svolge sempre su più piani temporali, tra passato, presente e un futuro plausibile. Come mai?

Cerco di far capire come la personalità tenebrosa di Eymerich varchi le epoche storiche, e domini il nostro futuro ancor più che il nostro passato. Questo è un pericolo serio, che vivo con angoscia. Vedo in giro tanti eredi di Eymerich, sparsi per il mondo.

-L’inquisitore Eymerich, seppur riluttante alla ferocia e al sadismo, non si tira indietro di fronte all’uso della tortura per estorcere confessioni. Nonostante questo, chi legge i suoi libri si identifica inevitabilmente con l’inquisitore dandone un’impronta solo positiva. Come lo spiega?

La violenza di Eymerich è anzitutto psicologica. A volte ricorre alla tortura, ma senza trascendere. Credo che questo risponda a una verità storica, circa l’Inquisizione medioevale: fu quella rinascimentale a fare della tortura una prassi. Quanto all’attrazione esercitata da Eymerich, va considerato che lui è, di norma, molto più intelligente e colto dei suoi nemici. Inoltre tutto è visto attraverso i suoi occhi. L’identificazione è obbligata. Si tratta, per chi sa intenderlo, del “fascino discreto” dell’autoritarismo.

-In questo prossimo libro si parla dell’attuale guerra all’Iraq. Qual è il suo punto di vista sulla questione?

All’Iraq accenno proprio in “La luce di Orione”. Per il commento a quella guerra, cito una frase detta dal ministro napoleonico Fouché, in occasione del rapimento del duca d’Enghien: “Peggio di un crimine: un errore politico”.

-Quale sarebbe quello dell’inquisitore Eymerich?

Penso analogo al mio (e a quello di Fouché, cui somiglia). Forse più cinico.

-Dai suoi libri emergono temi d’attualità quali la scienza che sfugge al controllo dell’uomo, o meglio che viene asservita per scopi malefici. Come si pone di fronte al dilemma scienza o morale?

La morale, purché non superstiziosa o “bacchettona”, deve prevalere sempre.

-Se incontrasse Eymerich adesso che cosa gli direbbe?

Gli direi: “Come mai governi il mondo?”

-Una sua riflessione sull’attualità politica italiana.

Credo che uno scrittore debba occuparsi di questioni etiche generali, non di problemi partitici. Si individua una contraddizione, la si indica al lettore. Questi, al momento di votare, farà le sue scelte. Ho la fortuna di trascorrere in Messico alcuni mesi all’anno. Mi appassiona più la politica di laggiù, con tutte le sue turbolenze, di quella di casa nostra. Almeno, da quelle parti non esistono “Ballarò” né programmi altrettanto molesti, tipo “Matrix” o “Porta a porta”.

 

 

Dall’Archivio. Il serial killer che è in noi

Dall’Archivio. Il serial killer che è in noi

Il Serial killer che è in noi

Ippolito Edmondo Ferrario

Secolo d’Italia, 13 giugno 2006

Intervista a 360 gradi con Andrea G. Pinketts, in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo “Ho fatto giardino”, da oggi in tute le librerie. Tra cronaca, delitti quasi perfetti e politica.

“Quando Michael Jackson era ancora nero io ero ancora bianco…..”. Comincia così “Ho fatto Giardino” l’ultimo romanzo dello scrittore Andrea G. Pinketts da oggi in tutte le librerie (Mondadori, pp.348, euro 16). Lui è il deus ex machina, o senza macchina (visto che la patente gli è stata ritirata), del noir italiano, la Tigre della Malesia in trasferta al Giambellino, il Serpico delle indagini giornalistiche. Lo abbiamo incontrato allo Smooth, il celebre locale di via Buonarroti a Milano che Pinketts ha eletto a sua seconda dimora. Andrea, seduto ad uno dei tavolini, circondato da bulli e pupe, mi accoglie lanciandomi sguardi da veterano di una cruenta guerra alla quale è sopravvissuto e di cui mostra orgoglioso le cicatrici. Camicia fantasia con pin-up disegnate , cravatta gialla, cappellino da pescatore color canarino, pantaloni blu con patta aperta e scarpe di pelle bianca…. Pinketts è una specie di Banana Joe. Quando arrivo mi saluta romanamente e mi presenta ai camerieri come…. Il Secolo d’Italia in persona. Poi la chiacchierata con lui entra subito nel vivo, tra un sorso di birra ed un toscano…..

Il noir è davvero tra noi. Non credi? La cronaca gronda sangue da tutte le parti: sembrerebbe che i fatti di cronaca nera, soprattutto in ambito familiare e che coinvolgono i bambini, siano in aumento. A chi imputi questa escalation di violenza e chi potrebbe essere il responsabile?

Gli assassini ed i serial killer esistono fin dalla notte dei tempi. Non è stato scoperto nulla di nuovo. Euripide con la sua Medea già ne parlava secoli fa. Certamente i mezzi di informazione amplificano le notizie, dandone una rilevanza che prima non avevano.

E’ solo questione di informazione?

Sì, in un caso e nell’altro. Si verificano anche situazioni in cui il fatto di sangue viene in qualche modo stemperato prima di diventare di pubblico dominio. Ciò quando avviene in alcune realtà più o meno omertose.

 

Un bene o un male?

A volte è anche un bene. Io, comunque, fino alla prova di colpevolezza, non sono per il buttare il mostro in prima pagina.

E parlaci ora del tuo nuovo libro, a cominciare dal titolo. Che cosa significa?

“Ho fatto giardino” è una mossa che nel gioco del poker non esiste e che sconsiglio ai principianti di mettere in pratica; essa consiste nel bluff assoluto, alla quale ricorrere quando in mano non hai una carta uguale e i tuoi titanici avversari sono pronti a farti fuori. Ecco che allora “fare giardino” è l’unica mossa per diventare un iceberg e affondarli.

Dove è ambientata la storia?

Tra Milano e Saint-Tropez, ma soprattutto a Milano, in una città in pieno decadimento, divorata e dilaniata dalle boutiques, sempre più in vetrina e quanto mai plastificata. In pratica un plastico di città. Una città, per dirla alla Califano dove “La musica è finita, gli amici se ne vanno….”. Quindi fare giardino nel mio libro vuol dire creare una nuova vegetazione in una metropoli che è condannata ad essere priva. L’unica erba infatti che cresce a Milano è al Parco Sempione, ai giardini pubblici o… nelle canne, E purtroppo, spesso, una cosa non esclude l’altra.

Ma è un romanzo ecologista?

Non esattamente, non ho propensioni buoniste. Da bambino anch’io andavo ai giardinetti a giocare e così ho deciso di riprendere il gioco nella sua forma più estrema per l’ultima puntata di Lazzaro Santandrea, protagonista della storia e perdente di successo.

In “Ho fatto giordino” affronti anche il problema della droga…..

Io sono contrario, preferisco il whisky. E tendenzialmente sono solo a favore della fantomatica Bumba, sostanza che ho inventato per questo romanzo, ma che non si sa se esista effettivamente, almeno fino alla fine del libro. La Bumba, paragonabile alla leggenda metropolitana dei coccodrilli albini nelle fogne di New York, nel libro diventa una sorta di Graal, ma non vorrei essere accomunato a quell’altro scrittore di cui si parla oggi… James Brown. Giusto? Dunque la Bumba è sostanzialmente un contenitore vuoto…..

E’ l’ultima volta che utilizzerai il personaggio di Lazzaro Santandrea, il tuo alter ego?

Lazzaro è morto e resuscitato più volte e ciò fa parte del suo destino, continuare a resuscitare. Questa volta però sarà l’ultima e voglio consegnarlo vivo all’eternità. Non vorrei che fra qualche anno un pirla qualunque lo riadattasse alla sua scrittura profana per farlo rivivere.

Chi è in realtà il detective Lazzaro Santandera?

Lazzaro è sacro e profano, un avventuriero della vita, un detective che indaga su quell’enorme mistero che si chiama esistenza. E ancora è un filosofo da quattro soldi, che è sempre un punto in più de L’opera di tre soldi di Bertolt Brecht.

Il libro è dedicato a qualcuno in particolare?

A Gianfranco Micucci, ex sindaco di Cattolica, compianto galantuomo dall’intelligenza irrequieta. Fu lui nel 1992 a farmi eleggere Detective comunale con il titolo di Sceriffo, dando uno schiaffo morale, e non solo, alle ingerenze camorristiche che si stavano verificando e alla disattenzione di chi avrebbe dovuto occuparsene.

In alcuni tuoi libri è evidente un tuo interesse per l’argomento religioso. Che rapporto hai con la religione?

Ti posso dire però che di questo mio ultimo romanzo ho mandato le bozze in anteprima al Papa per avere la sua approvazione.

 E lui?

Non avendo avuta risposta sono forte del fatto che chi tace acconsente. Quindi è un romanzo della Madonna! Io poi ho una grande simpatia per il Dio biblico e per il suo lato etilico. Dopo il diluvio universale, una volta toccata la terra ferma, Noè si preoccupò di piantare una vigna, cominciando a produrre vino. Ecco perché il bar è anche il mio ufficio….

Torniamo all’attualità. Il problema criminalità è sempre al centro di numerosi dibattiti. Che cosa farebbe Pinketts Ministro dell’Interno?

Dubito che possano eleggermi, ma credo che la prevenzione sia la migliore cura. Punterei dunque di più sull’intelligence nonostante io sia un uomo d’azione; quest’ultima che deve essere sempre meditata, mai ottusa. La prima regola per opporsi alla criminalità è una grande elasticità mentale coordinata da un decisionismo meditato.

Credi che sull’onda delle cronache quotidiane, il genere noir stia vivendo in Italia una seconda giovinezza?

Il noir è lo specchio della società. Attualmente è un genere quasi inflazionato, è un genere-non genere. I miei noir sono infatti “degeneri”. Sicuramente è un o specchio di acque torbide in cui anche Narciso si vede brutto, ma è giusto che sia tale.

Andiamo alla politica. Chi getti dalla torre?

Prodi. Perché rimbalza.

Cosa pensi dello scandalo del calcio?

E’ la cronaca di uno scandalo annunciato. Io ho sempre preferito il rugby.

Progetti letterari per il futuro?

Diversi. Sto lavorando con Massimo Gatti, fotografo e imprenditore, a un nuovo personaggio, un ex-monaco benedettino inspiegabilmente trapiantato per un incidente temporale nel presente.

Puoi darcene un’anticipazione?

Si chiama Benedetto Dalla Doccia e il suo scopo è redimere affettuosamente una strega, facendo al tempo stesso piazza pulita dell’inquisizione e del male che genera.

Dove andrai in vacanza quest’anno?

Quando le saracinesche chiudono per ferie, le persone vanno in vacanza e James Bond va in missione…. Io vado in tournée.

Il Secolo d’Italia, 13 giugno 2006

 

Il Secolo d’Italia, 13 giugno 2006