ACCADDE DOMANI. 12 DICEMBRE 1969. GIANCARLO ROGNONI E LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA. UNA TESTIMONIANZA INEDITA (Seconda parte)

ACCADDE DOMANI. 12 DICEMBRE 1969. GIANCARLO ROGNONI E LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA. UNA TESTIMONIANZA INEDITA (Seconda parte)

ACCADDE DOMANI. 12 DICEMBRE 1969. GIANCARLO ROGNONI E LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA. UNA TESTIMONIANZA INEDITA (Seconda parte)

Fu grazie a Foscari che Siciliano venne introdotto all’ambiente milanese.

Ricordo un ultimo dell’anno trascorso a casa di un camerata milanese, Franco Mojana a cui partecipai insieme a Siciliano e altri. Verso le cinque del mattino ricevetti a casa una telefonata da una comune amica, Ada.

Ricordo che la ragazza mi chiese di poter fare da testimone al matrimonio tra le e Martino che si erano conosciuti quella sera stessa…Al momento non avevo compreso, pensando al mio ruolo di testimone per un incidente accaduto magari nella notte, rientrando dalla festa, e non per le loro nozze.

Sono tutti episodi che ben poco hanno a che vedere con riunioni e organizzazioni di attentati e stragi… Successivamente, vicissitudini personali, portarono Siciliano a tentare anche il suicidio nei servizi di un bar vicino alla sede del Msi a Milano.

A tutta una serie di illazioni mossemi, risposi portando diverse prove concrete.Dimostrai la mia presenza sul posto di lavoro, in banca, il 12 dicembre grazie ad una dichiarazione della Banca Commerciale Italiana, l’istituto per cui lavoravo in una delle filiali situata in viale Campania.

Tale documento fu fondamentale perché impedì all’accusa di conferirmi il ruolo di colui che aveva addirittura posto l’ordigno all’interno dei locali in piazza Fontana; rimanevano però le accuse di aver fornito supporto logistico.

Su come poi si sarebbe svolto il mio 12 dicembre entrerò nel merito successivamente riportando un episodio in particolare.

Approntai una difesa in più  punti per dimostrare la mia estraneità ai fatti, ma gli sforzi furono inutili.

Si volle sostenere un sillogismo per il quale, essendo in contatto con i supposti autori della strage, io stesso dovevo avervi preso parte secondo precise modalità logistiche.

Il 28 giugno 2001 presenzia in aula rilasciai ai giudici questa mia dichiarazione: «(…)Quest’ultimo aspetto voglio sottolinearlo perché ha una certa attinenza con questo processo che vede la tesi accusatoria reggersi in larga parte sulle vociferazioni che sarebbero corse in ambito carcerario.

È una banale ovvietà, ma voglio ribadirlo.

Il carcere è un ambiente degradante e corruttore.

Considerate che io, cinquantaseienne, le sole volte che vidi droghe di tutti i tipi fu proprio quando ero detenuto nei cosiddetti carceri speciali. In carcere è facile smarrirsi. Il dottor Maggi mi fu vicino venendomi a trovare, scrivendomi, inviandomi libri, facendomi sentire insomma parte di una comunità viva.

Per chi non dispone di simili ancore e magari non dispone di una salda struttura spirituale è facile piegarsi e spesso sprofondare nella degradazione e nell’abiezione.

Altrettando facile subire sollecitazioni e lusinghe oppure reagire agli stimoli come una sorta di riflesso pavloviano. Ed è quanto mi pare sia avvenuto per alcuni.

Ad esempio Bonazzi. Individuo un pezzo di una lettera che da poco ho ritrovato che egli mi scrisse dal carcere di Nuoro l’8/10/80, proprio nel 1980, e mi dice: “Da parte mia ho preparato un pezzo sulla strage che apparirà su un giornaletto di camerati a firma Quex”.

“È chiaro che la strage è di potere” lo scrive maiuscolo e sottolineato.

“Su questo non ci possono esserci dubbi”.

Ed ora indica come uno fra i responsabili me, che con il potere ho certo ben poco a che vedere.

Spesso, durante le udienze, è stata ventilata l’esistenza di una sorta di incitamento alla violenza da parte della Fenice. Orbene questo periodico era regolarmente registrato, tutti i numeri depositati.

Eppure nessun articolo è stato presentato a sostegno di questa tesi. Segnalo anzi che il motto campeggiante tutte le prime pagine dei vari numeri era quello di Don Bosco, “Nello sport, come nella vita, audaci, forti, leali e generosi” a cui avevamo sostituito “sport” con “impegno politico” e rappresentava, questo sì, il nostro pensiero.

Debbo dire, e credetemi che è assolutamente la verità, arrivati alla conclusione di questo processo, non ho ancora ben capito che cosa io avrei esattamente fatto, quale sarebbe stato il mio ruolo in questo progetto criminale.

Si è molto parlato dei tempi e dei luoghi in cui io ho conosciuto i miei coimputati e il Siciliano.

Mi pare che una parte civile per sostenere una tesi accusatoria mi abbia fatto presenziare negli stessi giorni a eventi differenti con differenti persone siti in luoghi a centinaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro. Io non ho conosciuto Siciliano nell’occasione indicata dallo stesso e ho conosciuto i miei imputati solo in data susseguente a quella della strage. Essenziale però a mio giudizio non è nemmeno questo, bensì il fatto che io non ho avuto, né nella genesi né nella realizzazione di questo attentato, alcun ruolo.

Mi pare quasi che si stia presentando un paradosso assurdo. Da un punto di vista giudiziario, ovviamente non morale, sarebbe quasi preferibile che io avessi assunto un qualche ruolo, magari marginale, per poter, confessando, sfuggire, tramite prescrizione, al giudizio. In realtà però è che non posso e neppur volendo, confessare alcunché. Dovrei mentire benchè non veda che ruolo credibile potrei creare anche in considerazione del fatto che le indagini hanno permesso di appurare che il giorno della strage io ero al mio posto di lavoro.

È infatti presumibile che, in un piano così articolato e complesso, nessuno spazio possa essere affidato a complici non necessari e, nel mio caso, fonte di possibile identificazione.

Fra l’altro credo che l’intossicazione a cui fu sottoposto lo schieramento politico a cui appartengo sia frutto di tecniche di disinformazione e depistaggio attuate a posteriori.

Se la regia vi fu, questa costruzione di indizi attuata dopo i fatti, si rivela molto labile per le difficoltà di distinguere il vero dal falso, sia per il passare del tempo, che offusca i ricordi, sia per la disinformazione che fu attuata ai danni di un’area in anni di forti tensioni politiche e sociali in cui a volte varie persone si sono trovati ad essere involontari attori o comparse.

Il Pubblico Ministero, con un’immagine suggestiva, suggerisce che non credere all’impianto accusatorio equivarrebbe a considerare colpevoli di un complotto inquirenti e magistrati che hanno istruito questo procedimento. 

Questo non è vero. Io ho molto apprezzato le indagini di polizia giudiaziale eseguite su disposizione della pubblica accusa tendenti a verificare le mie dichiarazioni. D’altronde non poteva essere differentemente, dato che proprio i risultati di quelle indagini costituiscono larga parte della mia difesa.

Pensavo anzi che il Pm desse maggior credito alle indagini da lui disposte.

Quello che ho molto apprezzato, durante il drammatico interrogatorio cui fu sottoposto Azzi in carcere, è che lo stesso, riaffermando l’astio nei miei confronti, ribadiva di non aver mai fatto dichiarazioni sui miei presunti coinvolgimenti nella strage di piazza Fontana. Ho apprezzato, dicevo, il comportamento della pubblica accusa che rifiutava la scorciatoia proposta dell’avvocato dell’Azzi per uscire dall’empasse e cioè il mio arresto.

Credo che il Pubblico Ministero sia convinto della tesi accusatoria da lui proposta, e non abbia chiesto la mia condanna solo per appagare la legittima soddisfazione di aver chiuso il caso.

Questo però ai miei occhi non fa di lui motore di un complotto bensì semplicemente un uomo che sbaglia, perché sbaglia. Su alcuni organi di stampa questo processo è stato presentato come l’ultima occasione.

Se debbo essere sincero questo è per me motivo di preoccupazione.

Il timore cioè che si colga questa occasione per chiudere in qualche modo il caso trovando dei colpevoli pur che sia. Nei sopravvissuti si sviluppa una forte ritrosia a rivisitare quegli anni, vuoi per un desiderio di cancellazione, vuoi perché tentati inconsciamente di attribuire a sé stessi il ruolo dei buoni, vuoi perché non vogliono coinvolgere persone con cui in un lontano passato hanno condiviso battaglie politiche che spesso portavano a scontri radicali e ciò spiega le eventuali discrepanze o reticenze.

Come ho già detto non posso che augurarmi, anche sotto l’aspetto egoistico di un tornaconto giudiziario, che i colpevoli siano trovati e che io sia giudicato per le azioni da me compiute e non per la fede politica professata, che voi possiate, seppur a distanza di tanti anni, offrire giustizia e che questa sia figlia della verità.

Per concludere questa mia dichiarazione voglio pubblicamente, con pacatezza, ma anche con forte determinazione, affermare che per questo orribile reato sono completamente innocente»,

Il primo grado si concluse per me con la condanna all’ergastolo. 

Il giorno che appresi della sentenza vissi un profondo senso smarrimento.

Provai la tentazione di arrendermi, di non riconoscere la giustizia che mi stava giudicando e addirittura di non fare ricorso.

Non mi aspettavo di essere condannato all’ergastolo di fronte ad accuse totalmente inconsistenti. 

La prospettiva di rimettere in gioco completamente la mia vita con un mio ritorno in carcere era cosa concreta.

Se una parte di me avrebbe voluto arrendersi, l’altra reagì.Proseguii nel dimostrare la mia innocenza.

Non mollai grazie alla mia famiglia, all’insistenza di Franca, mia moglie e del mio avvocato.

Così, con rinnovato vigore, affrontammo il secondo grado del processo, sforzandoci di smontare, dopo averle analizzate, tutte le varie tesi accusatorie. Fu un lavoro enorme, intenso che richiese uno sforzo notevole.

Trascorsi settimane facendo ricerche, acquisendo articoli e documenti nelle biblioteche, al fine di documentare meglio le date e l’inquadramento cronologico di molti fatti attinenti il processo.

Tusa mi aiutò in questo compito, mentre a difendermi ebbi anche l’avvocato Enzo Fragalà che si concentrò sugli aspetti più politici della vicenda, ma non solo.

I tempi della giustizia furono lunghi, ma alla fine fummo in grado di dimostrare la mia totale estraneità ai fatti. Appresi della mia piena assoluzione dall’estero.

Una parte di me era certa che non mi avrebbero assolto. Non avevo fiducia nella giustizia e quindi decisi che prima di tornare in carcere, se così sarebbe stato, avrei percorso ancora una volta il cammino di Santiago.

Sulla via del ritorno fui raggiunto dalla telefonata nella quale Franca mi comunicava la piena assoluzione.

Fu una vittoria, ma conquistata ad un caro prezzo perché vissi quegli anni, ben undici, con la prospettiva di non riuscire a dimostrare la mia innocenza.

Al termine di questa sofferta vicenda giudiziaria affidai un breve comunicato agli organi di stampa. Con alcune precisazioni misi la parola fine a lungo iter giudiziario.


Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni

 

Accadde domani. 12 dicembre 1969. Giancarlo Rognoni e la strage di piazza Fontana. Una testimonianza inedita (Prima parte)

Accadde domani. 12 dicembre 1969. Giancarlo Rognoni e la strage di piazza Fontana. Una testimonianza inedita (Prima parte)

12 dicembre 1969. Giancarlo Rognoni e la strage di piazza Fontana. Una testimonianza inedita.

(Prima parte)


Come già detto, l’eredità umana e culturale della Fenice non venne dimenticata nonostante le traversie personali e le avversità. Nonostante tutto, sotto la cenere degli anni, la brace era rimasta accesa.

Come gruppo eravamo certamente stati dispersi e divisi, ma non del tutto. Nico Azzi, più giovane di me, aveva subito una lunga e dura detenzione. So che aveva avuto dei problemi con le guardie carcerarie, e tutti quegli anni non erano stati certo una passeggiata.
Dei fatti del passato che ci avevano visti protagonisti non parlammo più.

Ci incontrammo nuovamente in alcune occasioni pubbliche, come le commemorazioni annuali a Campo X, ma anche in privato.
Una volta che Nico venne a casa mia insieme ad un altro camerata, mi avvisò del fatto che probabilmente sarei stato coinvolto nelle indagini sulla strage di piazza Fontana a Milano, in merito alla quale lui stesso era stato da poco interrogato.
Fu certamente un’avvisaglia che però non presi troppo sul serio, poiché ritenevo impossibile l’accusa di un nostro coinvolgimento nella strage.

Mi sbagliavo, e i fatti seguenti lo dimostrarono: Nico fu arrestato e io mi sarei ritrovato a far parte del processo nel ruolo di indagato.

Tutto si basava sulle dichiarazioni di un pentito, Edgardo Bonazzi, il quale asseriva che Nico Azzi in carcere gli aveva confessato che il nostro gruppo aveva avuto funzioni di supporto logistico a coloro che avevano eseguito la strage di piazza Fontana. Conoscendo bene Nico non ho mai creduto alla versione di Bonazzi; Nico non dava confidenza, magari dava l’impressione, parlandoci, di essere al corrente di situazioni, ma non lo vedo nel ruolo di chi forniva informazioni.

Bonazzi, da parte sua, non era un militante di spicco e dubito fortemente che ricevette confidenze, anche di una certa portata, da altri con cui condivise il carcere.

Occorre sempre tenere presente la funzione carceraria delle rivelazioni. Molti detenuti nel tempo hanno utilizzato il sistema della collaborazione con gli investigatori per ottenere privilegi, approfittandone ampiamente.

Nico negò di aver mai fatto simili dichiarazioni in carcere, ma ormai era troppo tardi.

La macchina della giustizia si era messa in moto e per molti anni avremmo dovuto combattere per dimostrare la nostra innocenza.

A sostenere la tesi che Nico avesse fatto simili confidenze, giunse in supporto dell’impianto accusatorio uno strano ritrovamento fatto nel 1985 in un appartamento di viale Bligny 42 a Milano.

In questo stabile, nelle soffitte all’epoca utilizzate come ricovero per sbandati, lo stesso giudice Guido Salvini aveva sequestrato un ingente quantitativo di documenti che facevano parte dell’archivio di Avanguardia Operaia.

Tra questi comparivano una serie di fogli dattiloscritti dedicati alle confidenze che Nico Azzi avrebbe fatto in carcere. Questa documentazione però al processo non ebbe alcuna rilevanza particolare (anche questo giustifica un sospetto di depistaggio), ma ci si basò sulle dichiarazioni di Bonazzi. Dichiarazioni che Bonazzi rilasciò nel 1994, a distanza di moltissimi anni dai fatti accaduti.
Secondo Bonazzi, Nico gli aveva confidato che il nostro gruppo aveva fornito ai veneti l’appoggio logistico per l’attentato del 1969.

La prima evidente incongruenza era che il gruppo della Fenice, perché di noi si parlava, nel 1969 non esisteva ancora.

E sempre nel 1969 non conoscevo neppure alcune delle persone successivamente imputate nel processo di piazza
Fontana.

Ma da lì a poco avrei scoperto meglio il teorema secondo il quale avevo necessariamente fatto parte dell’organizzazione dell’attentato.

Fui chiamato a colloquio dal giudice Guido Salvini. L’accusa che mi si muoveva in primis era quella di associazione sovversiva, forse quella anche più semplice da sostenere.
Da principio tesi a sottovalutare il mio coinvolgimento nel processo perché mi apparve poco credibile, basato com’era su accuse aleatorie.

Anche il fatto che fossi l’unico per il quale non era stato spiccato un mandato di cattura mi tranquillizzava, ma evidentemente mi sbagliavo.

Per gli altri indagati, Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Carlo Digilio, erano stati spiccati altrettanti mandati.
La mia strategia difensiva era tutta tesa a dimostrare che le frequentazioni che mi si imputavano di avere erano successive al 1969.

L’assurdità del teorema non stava tanto nella questione delle date (che come avrei dimostrato non collimavano), ma nel fatto di affermare che dalla semplice conoscenza e frequentazione di talune persone derivasse in modo incontrovertibile la mia partecipazione diretta all’attentato.

In ciò stava la gravità delle accuse mossemi insieme all’assenza di prove e di fatti specifici.
Sulla questione delle date, conobbi Carlo Maria Maggi e altri veneti sul finire del 1969, quando si verificò il rientro nel MSI del Centro Studi Ordine Nuovo.

Potrei averli conosciuti un paio di mesi prima del 12 dicembre del 1969: ma ipotizzare che da una frequentazione superficiale, fresca di poche settimane, potesse nascere l’idea di aderire al progetto stragista di persone appena conosciute è una follia. Il problema, al di là di queste date, era che dalla semplice conoscenza di queste persone derivava l’assioma dell’aver condiviso l’attentato.

Tali accuse erano poi supportate dalle dichiarazioni rese nel 1994 da Martino Siciliano.

Quest’ultimo sosteneva, a distanza di ben venticinque anni, la mia partecipazione ad una riunione tenutasi nella villa di Marco Foscari, nel luglio del 1969, nei giorni dell’allunaggio, durante la quale i rapporti tra veneti e milanesi si fecero sempre più stretti.

A smentire la mia presenza, in quella specifica data, a villa Foscari fu inaspettatamente un’informativa dei carabinieri che certificava la presenza di un gruppo di milanesi, tra i quali il sottoscritto, nella zona del Gran Sasso insieme ad altri camerati, per un campo organizzato dal Msi.
Fu a Milano che incontrai Foscari la prima volta, insieme a Siciliano stesso.

Il tramite era stato Gianbattista Cannata, amico di Foscari.

Rividi Foscari in qualche altra situazione, ma non intrecciai mai con lui rapporti di amicizia. Credo di essere andato a Villa Foscari una o due volte, in occasione di qualche festa.

Marco Foscari era un personaggio estremamente estroverso: amante della bella vita, poco alla volta aveva dissipato tutto il suo patrimonio per concedersi ogni lusso.

Per come lo conobbi era un tipo molto simpatico, catalizzatore di energie positive, ma – ripeto – molto interessato ai piaceri della vita. (continua)

 

Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni

 

 

Accadde domani. 5 settembre 1974. Cesare Ferri si consegna per entrare in carcere

Accadde domani. 5 settembre 1974. Cesare Ferri si consegna per entrare in carcere

5 settembre 1974. Cesare Ferri si consegna per entrare in carcere.

La fine di agosto si avvicina. Mentre è al mare apprende da un quotidiano di essere ricercato. L’articolo è inequivocabile. I giudici lo vogliono arrestare perché lo ritengono autore dell’attentato firmato dalle Sam alla sede del Psi di via Crescenzago, attentato nel quale lui non c’entra. Naturalmente il profilo di Cesare Ferri che compare sul giornale non è dei migliori. Inevitabilmente pensa a quello che hanno già scritto di Giancarlo,
e capisce d’essere l’uomo perfetto da accusare soprattutto da morto. Sceglie quindi di tornare a Milano e si prepara a costituirsi per difendersi.
«Decisi di tornare principalmente per l’accusa infamante di essere uno stragista. Non potevo tollerare che me la cucissero addosso. Oltre al fatto che ero certo che si stesse cercando di farmi fare la fine di Giancarlo».
Ferri si incontra con il suo legale e poi con i camerati. Sente che è il momento dei saluti, il carcere lo attende. È il 5 settembre del 1974 quando fa il suo ingresso a San Vittore. Inizia così un lungo iter giudiziario diviso su più fronti processuali.
«Quando si celebrò il processo contro Loi e Murelli anch’io fui presente insieme ad altri camerati. Ero dentro per l’attentato in via Crescenzago alla sede del Partito Socialista Italiano. Il giorno della lettura della sentenza pronunciata dalla Corte di Assise ero in aula ad assistere in quanto coimputato per resistenza a pubblico ufficiale e adunata sediziosa. Eravamo tutti insieme. Fu lì che accogliemmo la lettura della condanna con il Sieg Heil gridato in aula e accompagnato dal saluto nazionalsocialista. Un gesto che rimase impresso nella memoria di molti. Nei giorni del processo si verificarono diversi episodi, tra cui il mio alterco con Rea che allora dirigeva l’Ufficio Po litico della Questura. Lo sfidai a duello e lui sbiancò…Ma andiamo avanti… Mentre ero detenuto per le Sam, mi arrivò l’indizio di reato per tutti gli attentati compiuti in Alta Italia dal 1969 al 1974, come ho scritto in ‘San Babila la nostra trincea’. Poi mi spiccarono il mandato di cattura per il Mar di Carlo Fumagalli e per Ordine Nero. Fui condannato per l’attentato di via Crescenzago a due anni e due mesi. Successivamente fui indiziato come esecutore della strage di Brescia. Per quest’ultima venni sottoposto a interrogatori che duravano
una media di dieci ore. Si svolgevano in presenza in genere di due o tre pubblici ministeri, un giudice istruttore e sei o sette avvocati di parte civile. Al termine del primo interrogatorio a Brescia ricordo che tornai
in cella e senza neppure svestirmi, mi sdraiai così com’ero e mi addormentai esausto. Era solo l’inizio del mio periodo di detenzione che sarebbe durato fino al 1978.

Tratto da: Susanna Dolci, Ippolito Edmondo Ferrario, Cesare Ferri. Genesi di un ribelle, Edizioni Settimo Sigillo

 

 

Accadde Domani. 21 giugno 1971. L’Assalto al Circolo Perini di Quarto Oggiaro

Accadde Domani. 21 giugno 1971. L’Assalto al Circolo Perini di Quarto Oggiaro

21 giugno 1971. L’Assalto al Circolo Perini di Quarto Oggiaro
L’episodio che però sancì l’inizio delle mie disavventure giudiziarie fu la cosiddetta aggressione al Circolo Perini, che ebbe a lungo l’onore della prima pagina.
Qualche giorno prima dei fatti fui avvisato di un dibattito sul fascismo che si sarebbe tenuto al circolo stesso. Me ne parlò Remo Casagrande, storico militante missino di Quarto Oggiaro, invitandomi ad andare insieme a lui e ad altri. Accettai, e il 21 giugno del 1971 ci recammo alla serata. Eravamo in tanti, ma non tutti avevano interesse ad ascoltare il dibattito e, come spesso succedeva, alcuni preferirono attendere fuori; qualcuno si spostò in un bar non lontano. Il circolo era chiaramente un luogo di aggregazione della sinistra, ma l’atmosfera era abbastanza tranquilla. Prendemmo posto all’interno della sala e partecipammo alla discussione. Si creò qualche scontro verbale, anche acceso, ma nulla che facesse presagire cosa sarebbe successo. Terminati i nostri interventi decidemmo di lasciare la sala. Qui accadde l’equivoco dal quale si scatenò ciò che poi sarebbe stato definito, impropriamente, l’assalto al circolo. Nello stesso momento in cui uscivamo, i camerati che erano rimasti fuori si stavano avvicinando al circolo. Se non ricordo male stavano cantando e facendo un po’ di confusione. La persona addetta agli ingressi, vedendoli arrivare in gruppo – saranno stati una trentina -, si affrettò a chiudere il portone per non farli entrare. Posso comprendere la sua paura, anche se non c’erano intenzioni violente da parte loro. Ma nello stesso tempo i camerati che sopraggiungevano, vedendo che ci veniva impedito di uscire, equivocarono e pensarono ad una trappola tesa nei nostri confronti. A quel punto le cose trascesero e scoppiò il finimondo.
Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni.

La Fenice. Da oggi in libreria

La Fenice. Da oggi in libreria

La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese

Un libro di Giancarlo Rognoni e Ippolito Edmondo Ferrario, Ritter Edizioni

“In quegli anni la militanza ci imponeva di misurarci quotidianamente con
situazioni di violenza fisica, perché la violenza era all’ordine del giorno. Lo
scontro fisico, lieve o pesante che fosse, era la normalità per chi faceva politica.
Rappresentando una minoranza, noi neofascisti avevamo la vita non facile.
Più volte durante le manifestazioni partecipammo ad aspri scontri, ma i problemi
non si limitavano a queste situazioni. Si diventava dei possibili bersagli
dal momento in cui si usciva di casa fino a quando non si rientrava.
Fu quindi necessario attrezzarci per sopravvivere. È un dato evidente che
la cosiddetta “caccia al fascista” era una pratica abitualmente perpetrata a cominciare
dalle scuole e nelle strade. Di conseguenza ci organizzammo per
rispondere a questa violenza con altrettanta violenza”.

G.Rognoni

Ritter Editore, 2020
168 pagine + 16 di foto a colori
20 euro
www.ritteredizioni.com