Assedio mortale a Milano. La terza indagine del banchiere Raoul Sforza. Comunicato stampa

Assedio mortale a Milano. La terza indagine del banchiere Raoul Sforza. Comunicato stampa

ASSEDIO MORTALE A MILANO

Immigrazione, campi profughi lager, onlus; ma anche intolleranza, razzismo e attentati. Sono molti i temi,  attuali e complessi, messi sul piatto dallo scrittore Ippolito Edmondo Ferrario nel suo ultimo romanzo noir.

Fratelli Frilli Editori

La metropoli meneghina, d’improvviso, viene presa d’assalto e messa sotto assedio da falde violente di extracomunitari che travolgono un’intera città, coinvolgendo  famiglie di immigrati spaventati e inermi di fronte a tanto caos.

Ma cosa sta succedendo a Milano?

Solo un uomo, Raoul Sforza, noto banchiere conosciuto per la sua irritante schiettezza e indifferenza verso il genere umano, può rimettere le cose in ordine.

Le istituzioni preposte hanno perso il controllo della città o, più facilmente, non lo hanno mai avuto?

L’opera tratta del tema dell’immigrazione nella sua interezza, partendo dal difficile e doloroso viaggio intrapreso da Morathi, un ragazzino eritreo di 12 anni, e dalla sua famiglia, fuggiti dal loro Paese di origine alla ricerca di un luogo migliore in cui vivere, l’Europa.

La storia comincia in un campo profughi libico e descrive dapprima le atroci violenze subite all’interno dei campi di detenzione, prosegue con il lungo viaggio della speranza, fino all’arrivo sulle coste italiane.

Uno dopo l’altro vengono narrati, in modo molto approfondito e realistico, gli avvenimenti in una lunga sequenza di abusi che sembrano non avere mai fine, perfino al loro arrivo in Italia quando il peggio sembrava fosse stato lasciato alle spalle.

La destinazione finale del viaggio è la metropoli meneghina luogo in cui, la vita del ragazzino, viene nuovamente sconvolta fino a quando il suo destino non si intreccia con quella di  Amadi Babatunde, primo nigeriano a divenire agente di Polizia Straniera Locale del capoluogo lombardo.

Nel frattempo, un’ondata migratoria senza precedenti assedia i centri di prima accoglienza, creando a catena numerosi spostamenti verso la metropoli e, mentre i milanesi e le istituzioni soccombono al caos, l’ambigua e controversa figura del banchiere Raoul Sforza sembra essere l’unica in grado di arginare il fenomeno. Privo di ogni morale e dal passato oscuro legato agli Anni di Piombo, il banchiere è la figura chiave della vicenda.

Il sindaco Enrico Villa, carismatico leader del movimento sovranista Libertà di Popolo, detto “il Bomber” (il cannoniere che non sbaglia mai un colpo), è vittima di un oscuro ricatto e, nelle mani dello Sforza, sembra quasi un agnellino in attesa di essere divorato dal lupo.

Poteri forti lanciano la loro sfida tramando vendetta nei confronti del sindaco e, cosa ancora più ardita, dell’unico uomo che può davvero sconfiggerli fino a schiacciarli con ogni mezzo: il banchiere nero.

Assedio Mortale a Milano, F.lli Frilli Editori, è disponibile in tutte le librerie d’Italia a € 18,90 e nei principali store digitali. Pagg. 448. Collana SuperNoir Bross Isnb 9788869436802

Ippolito Edmondo Ferrario, classe 1976, è uno scrittore milanese. Si è occupato dello studio e della divulgazione della Milano sotterranea attraverso numerosi saggi. Ha scritto libri sull’epopea dei mercenari italiani nelle guerre post-coloniali e biografie inerenti agli anni di piombo. Ha pubblicato per Ugo Mursia Editore, Castelvecchi Editore, Newton Compton Editori, Ritter e Ferrogallico. Con Il banchiere di Milano (Fratelli Frilli Editori, 2021), seguito da I diavoli di Bargagli (Fratelli Frilli Editori, 2022) ha dato vita al personaggio seriale del “banchiere nero” Raoul Sforza qui alla sua terza indagine. Per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato: Il pietrificatore di Triora (2006), Triora. Il paese delle streghe. Storia, itinerari, curiosità, gastronomia (con Elisabetta Colombo, 2007), Il collezionista di Apricale (2007), Le notti gotiche di Triora (2009), Ultimo tango a Milano (2018) e La Gorgone di Milano (2019) scritto a quattro mani con Gianluca Padovan.

Per interviste all’autore e invio immagini in alta definizione:

 

Ufficio Stampa Ippolito Edmondo Ferrario

 

Ardeche Comunicazione

via Andrea Verga 4

20144, Milano

Tel. 02.2367048 r.a.

press2@ardechecomunicazione.com

 

Ancora una testimonianza del Maggiore Tullio Moneta sull’epopea dei mercenari in Congo

Ancora una testimonianza del Maggiore Tullio Moneta sull’epopea dei mercenari in Congo

 “Non uccidetemi, non uccidetemi!”

I mercenari del 5 Commando di stanza a Baraka, la base militare lungo il lago Tanganika, compivano azioni di guerriglia contro i ribelli Simba, una, o due volte alla settimana, dietro indicazione dei villaggi congolesi, che fornivano pure scout e portatori di armi e viveri.

Senza questo aiuto i mercenari non avrebbero vinto i ribelli Simba.

Una volta, nel 1966, fu attaccato un grosso villaggio Simba nel Kivu.

Furono necessari due gruppi di dodici uomini ciascuno, più gli scout katanghesi e i portatori congolesi. La colonna di attacco era formata dal gruppo “Tiger” (tigre) del tenente Tullio Moneta e dal gruppo “Wildcat” (gatto selvaggio) del tenente Boet Schoeman.

Li comandava il capitano Peter Ross-Smith.

I gruppi venivano aggregati quando venivano attaccati forti contingenti di Simba, soprattutto quando occorrevano diversi giorni per le operazioni.

Partendo da Baraka, i due gruppi facevano percorsi diversi, di notte, per poi riunirsi prima dell’alba nei pressi del villaggio Simba.

Dopo la conclusione dell’azione, la ritirata avveniva velocemente sempre per sentieri diversi dai primi, per non essere intercettati.
Il villaggio, oggetto dell’attacco, era a circa duecento metri più in basso ed era sistemato in un bell’ordine razionale. Esisteva pure una costruzione di mattoni con tetto di lamiera.

Divideva in due il villaggio un ruscello di circa tre metri di larghezza, in cui scorreva un’acqua limpidissima.

Intorno al villaggio c’erano piantagioni di manioca.

Era l’alba e nel villaggio dormivano tutti e senza sentinelle.

Era un luogo di pace. Idilliaco…

I ventiquattro mercenari si prepararono ad attaccare in silenzio, a cinque passi l’uno dall’altro, per un fronte di cento metri, predisponendosi in due gruppi ad “L”, per il tiro incrociato. Intanto alcuni Simba si erano svegliati, predisponendosi per le abluzioni al ruscello e per la colazione.

Tacevano ancora insonnoliti, oppure parlottavano, ignari dell’attacco… Non c’erano bambini.
I mercenari, ad un segnale del capitano Ross-Smith col “walkie talkie”, scatenarono un inferno di fuoco… I Simba non tentarono una resistenza e, lasciando morti e feriti sul terreno, fuggirono abbandonando le armi e, attraversato il ruscello, si inerpicarono su per il costone di una collina, dove furono colpiti alle spalle.

Se ne salvarono pochi.

Nell’area del villaggio si contarono venti Simba morti. Nessun ribelle fu catturato.

Nessuno andò a contare i Simba uccisi sul costone della collina.

Nella costruzione di mattoni con il tetto in lamiera erano accatastate fino al soffitto centinaia di zanne d’elefante, che i Simba avrebbero ceduto ai trafficanti in cambio di armi e munizioni.

Rastrellando il villaggio, furono trovati nascosti in una capanna una donna vecchissima, con i capelli bianchi come la neve. Tullio non aveva mai visto un’africana di tarda età con i capelli di quel candore.

Insieme a lei, c’era un adolescente con una gamba poliomielitica.

Non erano di sicuro dei Simba combattenti, ma solo dei civili che vivevano con i Simba. Quindi, erano stati lasciati in vita.

Purtroppo un mezzosangue, un meticcio di Città del Capo, di nome Greyling, diceva a voce alta di voleva tagliare la gola col machete ad ambedue.

Forse per darsi delle arie. I mercenari disapprovavano l’intenzione.

“Siamo dei soldati, non dei macellai – mormoravano. Tullio, avvisato da qualcuno del suo gruppo, disse al mezzosangue di non azzardarsi a toccarli. Al che il mezzosangue rispose: “Tu non sei il mio comandante e quindi non ti obbedisco”, rimarcando in tal modo di fare parte della pattuglia dei “Wildcat”, e non delle “Tiger” di Tullio.

Il comandante del mezzosangue si chiamava “Boet” Schoeman, di circa 29 anni, di professione cacciatore di elefanti e bufali, organizzatore di safari di caccia grossa, insieme alla sua famiglia.

Era un ottimo guerrigliero. Aveva combattuto con i “Selous Scouts” rhodesiani contro i guerriglieri dello ZANU di Robert Mugabe.

Spesso andava ad esplorare la zona insieme ai katanghesi, per poi riferire alla pattuglia ove erano i Simba.

“Boet” Schoeman aveva però un difetto, una mania: era di “grilletto facile”…

Nel senso che risolveva le controversie con gli altri estraendo la pistola e facendo fuoco senza discutere… “Boet” aveva ammazzato in Sudafrica due poliziotti in borghese, poiché lo stavano vessando e volevano disarmarlo. Il giudice lo aveva scagionato, poiché all’epoca si aveva il diritto di andare in giro armati con due armi corte, pistola o revolver..

Aveva in seguito ammazzato a sangue freddo qualche Simba e freddato pure due mercenari…
Per questo motivo, quando andava a parlare con lui, Tullio Moneta levava prima la sicura alla Walther P38, cal. 9 mm parabellum, che teneva, sempre pronta, al fianco destro, o sotto l’ascella sinistra, con il colpo in canna.

Come è noto, la P38 è un’ottima pistola tedesca a “doppia azione”.

Ciò significa che quando la cartuccia è in canna e il cane abbassato, si può sparare premendo semplicemente il grilletto. In tal modo si provoca automaticamente l’armamento del cane, che colpirà poi la cartuccia e farà partire il colpo.

Tullio teneva nel serbatoio gli otto colpi prescritti, più uno in canna, pronto all’uso.

“Boet” Schoeman aveva invece una Browning 9 mm Parabellum, che non era dotata della “doppia azione”. Significa che per sparare doveva prima, col pollice, alzare il cane e poi tirare il grilletto.

Tecnicamente, l’arma era inferiore a quella di Tullio. Estraendo contemporaneamente la pistola, Tullio avrebbe sparato per primo. Però, “Boet” era velocissimo ad estrarre e a fare fuoco.

Tullio aveva visto farlo con un gattino che fuggiva dalla cucina con un pezzo di carne in bocca. “Boet” fu un fulmine ad estrarre la Browning e a fare fuoco a ripetizione sul gattino, che saltava di qua e di là per gli schizzi di ghiaia delle pallottole, mancato per due dita.

Il micio si salvò e non si fece vedere per un lungo periodo di tempo, preferendo cacciare i topi, molto abbondanti e carnosi in quelle zone equatoriali, piuttosto che rischiare di incontrare quel pazzo di “Boet” Schoeman… Che aveva pure una mira infallibile: ogni tanto, a richiesta, con un colpi di fucile FN accendeva la capocchia di un fiammifero tenuto in mano da un mercenario a venti metri di distanza… Tullio lo aveva visto fare una ventina di volte.

“Boet” Schoeman e Tullio Moneta si stimavano reciprocamente.

“Boet” chiamava Tullio con il soprannome di “Zorba”. Pure i katanghesi avevano dato a Tullio il soprannome di “Chifambausiku”, che significa “colui che si muove di notte”, oppure “colui che attacca di notte”.

A “Boet” – secondo il parere di Tullio – mancava qualche rotella.

Al punto che riuscivano a stare con lui solo coloro che non avevano una personalità propria e che, all’occorrenza, scimmiottavano il loro comandante.
Tullio ricorda che una volta catturarono in un villaggio Simba un congolese che si era nascosto.

Costui era troppo ben vestito – camicia immacolata e pantaloni perfettamente stirati – per poter essere un Simba qualsiasi. Inoltre, aveva con sé una cartella gonfia di documenti, alcuni dei quali scritti in russo

. La cartella fu confiscata per essere inviata a Leopoldville. Schoeman ordinò al congolese “pesi, pesi”, “cammina, cammina” in swahili.

Quello, invece, si dette alla fuga, ma fu fermato dopo quindici metri, colpito alla nuca, dalla pistolettata infallibile di Schoeman.
Poi, un sergente di Schoeman si avvicinò a sua volta al morto e sparò un’altra pistolettata alla testa, mentre il sangue “gorgogliava” dal foro del primo colpo…

Allo sguardo di disapprovazione di Tullio l’idiota rispose: “Dovevo pulire l’arma”. Voleva farsi bello con il suo comandante sparando pure lui al congolese morto.

In questa occasione, era necessario sparare al fuggitivo?

Quando un Africano, malgrado i piedi piatti – poiché i neri hanno i piedi piatti – si mette a correre nessun bianco potrebbe competere con lui per riacciuffarlo.

Quindi, era necessario sparare per fermarlo. Soprattutto, perché non era un congolese qualsiasi, ma un esponente dei ribelli Simba.

C’era chi, avendo una personalità più definita, non voleva rimanere con Schoeman e faceva a Tullio la richiesta di fare parte del suo plotone.

Tullio rispondeva loro di chiedere il permesso al loro comandante Schoeman. In quattro lasciarono Schoeman dopo che ottennero il permesso. Ricorda solo tre nomi di quei quattro: J. Swart, Swanepoell e Penton Ferreira.
Tullio, prima di accettarli, andò da “Boet”, che gli rispose di prenderseli.

C’era anche un motivo: egli voleva con sé Piero Nebiolo che proveniva dalla Legione Straniera e aveva combattuto nel Vietnam francese e nella battaglia di Dien Bien Phu, dove la Francia perse la sua colonia.

Tullio tergiversava, pure perché Nebiolo – un guerriero esperto e coraggioso – non voleva andare con un “pazzo” sparatore impulsivo, ed anche perché non sapeva parlare e capire la lingua inglese.

Torniamo ora al caso della vecchia e del ragazzo poliomielitico, che il mercenario Greyling voleva sgozzare.

Mentre la donna girava intorno lo sguardo terrorizzato, con gli occhi fuori dalle orbite, il ragazzo implorava in francese: “Il faut pas me tué, il faut pas me tué… Non uccidetemi, non uccidetemi”.
Tullio rispose al ragazzo: “No, nessuno ti ucciderà!”.

Poi, rivolto a Greyling, il mezzosangue, disse: “Come ti permetti di fare queste cose? Che razza di soldato sei? Non ti vergogni? Se ti azzardi a fare loro del male, ti ammazzo con le mie mani”.

Mentre diceva a Greyling queste minacce, anche gli stessi commilitoni esprimevano il loro malumore per la crudeltà di quel mezzosangue sudafricano.

Poi andò dal comandante Schoeman.

Anche in questa occasione, come faceva sempre, Tullio tolse la sicura alla pistola e andò incontro a “Boet” Schoeman.
“Senti, “Boet”, c’è là quel tuo mezzosangue, quel Greyling, che vuole tagliare la gola a quella vecchia e a quel ragazzo poliomielitico”.
Fissando “Boet” negli occhi, gli disse. “Se qualcuno farà del male a quei due, a quella vecchia e all’altro che è poliomielitico, è la volta che mi arrabbio sul serio. E’ chiaro, “Boet”?”
Schoeman si mise a ridere e avvenne il miracolo. “Zorba, non ti preoccupare, nessuno farà del male a quei due. E poi è domenica… Adesso ci penso io – promise.
Boet si avvicino a Greyling e gli intimò: “Non azzardarti a toccare questi due! Okay?”

Greyling non tentò neanche di aprire la bocca.

Tacque e si allontanò a testa bassa.

Sapeva bene che se si fosse azzardato a replicare, pure con lo sguardo, il capitano Schoeman avrebbe estratto fulmineo la pistola e gli avrebbe sparato in bocca. Era una cosa risaputa.
La prima cosa che dicevano ai nuovi arrivati era: “Obbedisci sempre al tenente “Boet” Schoeman e non replicare mai. Ne va della tua vita”…

Intanto, il ragazzo, che tremava e batteva i denti dal terrore, aveva avuto un attacco di diarrea, che gli colava dai calzoncini lungo le gambe… Schoeman ordinò ad un katanghese di caricarsi il ragazzo sulle spalle
e di metterlo al sicuro, insieme alla vecchia in un capanna fuori del villaggio.

Il katanghese non voleva caricarsi sulle spalle il ragazzo per non sporcarsi la schiena, ma uno sguardo di Schoeman gli fece capire di obbedire senza replicare, per non finire ammazzato.

Era pure certo che Schoeman non avrebbe chiesto al tenente Mutambala, che comandava i katanghesi, il permesso di sparare a quel suo soldato katanghese: avrebbe estratto dalla fondina la pistola e fatto fuoco.

Nella jungla i comportamenti sono diversi da quelli delle truppe regolari, burocratiche e rispettose della gerarchia.

Nella giungla, o si è rispettati e temuti, o si rischia la vita con il “fuoco amico” alla prima occasione.

Mentre il katanghese trasportava il ragazzo poliomielitico verso una capanna, la vecchia si appoggiava al braccio di Tullio, dicendogli “pole, pole”, ossia di camminare lentamente.

Tullio sentiva il contatto della mano della vecchia sul suo braccio, provando nel cuore una strana, umana dolcezza…

Schoeman fece portare nella capanna pure dei viveri per la vecchia e per il ragazzo.

Poi, i katanghesi ebbero l’ordine di bruciare il villaggio.

Essi, felici, lo fecero così bene che dopo poco Tullio e i mercenari si trovarono circondati dalle fiamme, rischiando di finire arrosto.

Si salvarono bagnandosi nel ruscello e correndo lungo il suo letto fino ad uscire dal villaggio.

Si accorsero, poi, che pure la capanna in cui erano la vecchia e il ragazzo aveva preso fuoco e i due rischiavano di morire tra le fiamme. “Boet” Schoeman dette ordine di tirarli fuori.

Due katanghesi si bagnarono i vestiti ed entrarono nella capanna in fiamme, traendo fuori la vecchia e il ragazzo, senza neanche una bruciatura.
Li portarono lontano dalla capanna in fiamme e li misero in un luogo sicuro. I viveri erano andati bruciati con la capanna, ma lì c’era un campo di manioca e i due non sarebbero morti di fame.

Il maialino e le zanne d’elefante

In questa vicenda sono da menzionare due episodi degni di essere immortalati in una sequenza da fiction, tanto sono al di fuori del comune attacco guerrigliero.

Il capitano Peter Ross-Smith aveva appena dato l’ordine del fuoco allo schieramento del tenente Tullio Moneta, dove c’erano anche alcuni degli “wildcat” di Schoeman, quando uno di questi, in sella ad una bicicletta arrugginita e con le ruote prive di tubolari, trovata evidentemente un attimo prima nella savana, si gettò a capofitto, pedalando verso il villaggio.
“Fermi, fermi tutti, cessate il fuoco! – gridò Ross-Smith – Ma chi è quel pazzo?”
Qualcuno disse: “Ma… ma quello è Sporos… E’ impazzito!”
Quando il mercenario in sella alla bicicletta fu fuori della linea di tiro, il fuoco ricominciò.
Sporos era un greco sempre taciturno, che aveva cominciato come mercenario nella precedente ribellione del Katanga del 1961, con Ciombè. Sporos conosceva personalmente Ciombè. Tullio aveva avuto occasione di vedere con quale cordialità quel grande politico congolese parlava con Sporos.
Intanto la battaglia era finita, con i Simba morti, o fuggiti. Tutti pensavano che pure Sporos fosse morto…
Mentre scendevano per occupare il villaggio, il greco riapparve, ansante, mentre risaliva la china.

Quando il capitano Ross-Smith lo vide gli gridò: “Ma che cazzo hai fatto?”
Sporos, raggiante, gli rispose: “Pork!…” indicandogli un maialino scuro, che portava sulle spalle, morto.

L’altro fatto fu cosa avvenne con le zanne d’elefante accatastate nella casetta di mattoni. Sarebbe stato un affare ricchissimo se le avessero trasportate a Baraka come preda di guerra. Purtroppo, i camion della spedizione erano distanti parecchie miglia da quel villaggio. Le zanne sarebbero state quindi bruciate con i lanciafiamme.
Piero Nebiolo chiese a Tullio di mettergli alcuni portatori congolesi a disposizione per portarsi via alcune di quelle zanne. Tullio rispose che i portatori servivano per trasportare le munizioni e i viveri, molto più importanti di quelle zanne d’avorio. Allora Nebiolo, prima che venisse bruciato il deposito, prese tre zanne di elefante non molto pesanti e se le caricò sulle spalle.

Dopo qualche centinaio di metri, Nebiolo abbandonò una zanna di elefante, quella più pesante…

Dopo un’altra mezzora di cammino veloce nel sentiero della savana, ne buttò un’altra…

Dopo un altro chilometro Nebiolo abbandonò la terza zanna, la più piccola che gli era rimasta: aveva le lacrime agli occhi…

 

Testimonianza raccolta da Giorgio Rapanelli

 

Quel 31 dicembre 1968 nel deserto dello Yemen

Quel 31 dicembre 1968 nel deserto dello Yemen

Quel 31 dicembre 1968 nel deserto dello Yemen

 

Il mio migliore augurio per lasciarci alle spalle questo infausto 2020 e affrontare  a testa alta l’anno che verrà.

Ippolito

 

Il 31 dicembre

eravamo ancora in pieno deserto e puntavamo

sempre a nord. Avevamo l’impressione di esserci persi

in quel mare di sabbia, così affascinante, misterioso

e volubile per le dune che cambiavano altezza e posizione

a seconda della direzione del vento. la sabbia si

infilava ovunque, malgrado i fazzoletti che tenevamo

sulla bocca e gli occhiali che proteggevano gli occhi.

In quel paesaggio incredibile a un certo punto cominciammo

a vedere delle ossa bianche che affioravano

lungo la pista. Ci fermammo. Ce n’erano tantissime

per qualche centinaio di metri: ossa, teschi ma

anche scarponi. Trovammo anche i brandelli di un

paracadute, mimetiche e un elmetto russo. era l’equipaggiamento

in dotazione alle truppe egiziane inviate

da nasser. I teschi erano moltissimi. non so

quanti potessero essere i morti lì presenti. giacevano

insepolti o sepolti grazie alla «pietà» del deserto.

Questa volta non facemmo come in Congo, dove avevamo

preso dei teschi per adornare le jeep e i camion.

Robert Muller, paracadutista, volontario di guerra

R.Muller, I.E. Ferrario, “Un parà in Congo e Yemen 1965, 1969”, Mursia

Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

Tullio Moneta e il tentato rapimento del leader etiope Mengistu

A distanza di vent’anni l’ex mercenario Tullio Moneta racconta dell’incarico ricevuto di rapire l’ex dittatore etiope Mengistu. Testimonianza raccolta da Giorgio Rapanelli.

Nel 1990 Tullio Moneta fu incaricato da una “intelligence” occidentale di rapire l’ex-dittatore rosso dell’Etiopia Mengistu, che si era macchiato di crimini contro l’umanità.

Doveva essere un’”operazione segreta”.

Qualora le cose dovessero andare storte, i paesi non vorrebbero essere coinvolti per motivi politici, negando così ogni coinvolgimento nelle operazioni.
Fuggito dall’Etiopia, Mengistu era stato accolto nello Zimbabwe dal dittatore Mugabe.

Mengistu viveva in uno chalet di proprietà di una cittadina somala sul lago Kariba.

Tullio conosceva bene quella zona turistica, che aveva frequentato con il suo colonnello Mike Hoare, comandante del 5 Commando in Congo nell’azione militare contro i ribelli Simba.

Erano insieme in quella zona per organizzare qualcosa che poi non andò in porto.
Lo chalet si trovava a circa 200 metri dalla riva nord del lago.

Si trattava di rapire Mengistu, caricarlo su di un aereo e riportarlo in Etiopia, dove sarebbe stato processato e condannato a morte… Condanna che sarebbe stata poi tramutata in ergastolo.
Insieme a due mercenari, Tullio Moneta fece un sopralluogo della zona di operazioni.

Scattò delle foto dello chalet, dell’ambiente intorno, dell’intera zona e delle strade, delle due guardie del corpo che guardavano Mengistu e dello stesso Mengistu che passeggiava in abiti civili.

Tullio e i due mercenari si muovevano nella zona camuffati da pescatori, che come altri pescatori si cimentavano nella pesca del “tiger fish”, il “pesce tigre” del lago Kariba, molto difficile da catturare.

La cattura di Mengistu non avrebbe invece presentato problemi per i cinque mercenari che insieme a Moneta avrebbero sopraffatto, addormentato e legato le due guardie del corpo grassocce, probabilmente soldati locali dello Zimbabwe.

Non sarebbe stato necessario eliminare le due guardie del corpo, sparando con le penne stilografiche cal. 22 R.L. di cui erano dotati: un armamento non compromettente, ma micidiale…
Avrebbero facilmente catturato Mengistu, messo nel portabagagli di un’auto e trasportato a cinque chilometri da lì, dove li aspettava su di una pista della savana un Chessna che  sarebbe volato fino ad Addis Abeba con a bordo l’ex dittatore.
Intanto Tullio Moneta e i cinque mercenari sarebbero diventati turisti per alcuni giorni in Botswana, al “Mowame Lodge” sul fiume Chobe, un affluente dello Zambesi, prima di tornare in Sudafrica attraverso la “Caprivi Strip”, punto di contatto con Zimbabwe, Namibia e Botswana.

Tuttavia le cose non si erano rivelate così facili…Innanzitutto non era stato possibile contattare un pilota della squadra di Jack Malloch, che avrebbe dovuto portare Mengistu in Etiopia.

Negli anni Ottanta Malloch, che era stato il pilota coinvolto nel fallito colpo di Stato delle Seychelles, ed era scomparso misteriosamente mentre volava con in suo Spitfire restaurato.

Pure il dottore Hans Germani, medico, scrittore e conoscitore di diverse lingue, amico di Tullio Moneta fin dai tempi del Congo, era stato, secondo dicerie, assassinato dalla polizia dello Zimbabwe.

In più, i sondaggi prevedevano una pesante sconfitta del dittatore Mugabe da parte del democratico Morgan Tsvangirai alle prossime elezioni presidenziali.

L’operazione diventava sempre più difficile da attuare.

Quindi, poco prima che Tullio Moneta potesse realizzare il rapimento di Mengistu, arrivò un messaggio radio che dava l’ordine di “ABORT ACTION”. Ossia, l’operazione rapimento di Mengistu era annullata.

La decisione era stata presa in previsione della vittoria di Tsvangirai, che, una volta diventato presidente, avrebbe fatto deportare Mengistu in Etiopia.
Tullio Moneta e i cinque mercenari trascorsero di conseguenza alcuni giorni al “Mowane Lodge” a spese dei mandanti del rapimento di Mengistu che non riconobbero ai cinque mercenari il compenso d’ingaggio pattuito, in quanto il rapimento non era avvenuto.
Come previsto, Tsvangirai vinse le elezioni, ma Mugabwe non accettò la sconfitta e rimase al potere.

Menghistu nel frattempo continuò a rimanere nello Zimbabwe come suo ospite.

 

Un’inedita testimonianza di Tullio Moneta. Storia di un blitz organizzato per liberare suore e religiosi

Un’inedita testimonianza di Tullio Moneta. Storia di un blitz organizzato per liberare suore e religiosi

Un’inedita testimonianza di Tullio Moneta. Storia di un blitz organizzato per liberare suore e religiosi

Pubblico la testimonianza di Tullio Moneta, raccolta da Giorgio Rapanelli, circa uno dei blitz ai quali lo stesso mercenario italiano prese parte quando era in Congo per liberare un gruppo di suore e di religiosi tenuti in ostaggio dai Simba.

La preparazione del blitz

Il colonnello Peters convocò gli ufficiali nella sala mensa, dove si tenevano le riunioni strategiche militari.

Il lungo tavolo era cosparso di carte topografiche, che il colonnello stava studiando con alcuni scout.

Quando gli ufficiali furono tutti presenti il colonnello esordì: “Salvo le pattuglie oggi operanti, mi rivolgo solo a chi è in libertà”. Dopo una pausa continuò: “I nostri informatori congolesi mi dicono che alcune suore belghe sono tenute in ostaggio dai Simba in un villaggio a nord ovest di Fizi, a circa trenta chilometri da Fizi.

Adesso, pur non essendo un obiettivo militare, ci sentiamo in dovere di liberarle. Mi occorre un ufficiale volontario e dei volontari…”

Da tempo si sapeva che alcune suore dell’ordine religioso di suor Annunziata, quelle che non erano riuscite a fuggire, erano state prese prigioniere dai Simba unicamente perché erano infermiere.

Le altre erano state uccise. Però, nessuno sapeva dove queste suore fossero tenute in ostaggio.

Adesso gli informatori congolesi assicuravano che quattro suore erano ancora in vita, insieme ad un fratello missionario nero, in un villaggio che era stato finalmente individuato sulla carta topografica.

Poiché non erano obiettivi militari, i soldati non erano obbligati a partecipare.

Solo chi partecipava a combattimenti di tipo militare aveva diritto alla diaria e all’assicurazione in caso di morte o di ferimento.

Quindi, nessuna diaria e copertura per i volontari.

Il colonnello Peters continuò: “Come ben sapete, i volontari che parteciperanno all’azione lo faranno gratuitamente e a loro rischio e pericolo…È chiaro?”. Tutti gli ufficiali rimasero presenti, in silenzio.

“Bene – continuò il colonnello – poiché si tratta di suore cattoliche rivolgo l’invito agli ufficiali e ai soldati cattolici. Poiché, nel 5 Commando esiste un solo ufficiale cattolico, il tenente Tullio Moneta, lo invito, senza costrizione, ad organizzare una pattuglia di soldati cattolici per liberare le suore. È chiaro, tenente Moneta?”

“Io non sono un credente cattolico – replicò il tenente Tullio Moneta.

“Sì, ma sei un Italiano e quindi sei cattolico – replicò Peters, con un ironico sorriso… Al quale Moneta rispose con un altrettanto ironico sorriso.

Dopo che Peters mise in libertà gli ufficiali, furono sguinzagliati i sergenti per trovare i volontari cattolici.

In breve tempo ne trovarono una trentina da diverse pattuglie e non tutti cattolici, ma pure protestanti e non credenti.

Tullio ne scelse dieci tra quelli delle varie pattuglie, i migliori come combattenti e fisicamente in ottima forma, facendo firmare loro una dichiarazione che in quell’azione erano in veste di “volontari”.

Ossia, in caso di morte o ferimento non avrebbero avuto compensi finanziari come da contratto, in quanto un’azione umanitaria non era vista come azione militare. Pure i tre mercenari italiani che erano nella pattuglia di Tullio Moneta – Piero Nebiolo, Eugenio Ciccocelli e Perissinotto – fecero parte del commando dei volontari.

Non era la prima volta che Tullio aveva liberato religiosi e civili.

Era capitato altre volte che dopo una sconfitta militare, i Simba scappassero, lasciando vivi gli ostaggi imprigionati. Ma questa sarebbe stata un’azione di guerriglia umanitaria.

Si sarebbe trattato però sempre di un attacco militare, sapendo pure dove si trovassero gli ostaggi, lasciandoli incolumi.

Come faceva sempre prima di partire per un’azione, Tullio controllava lo stato di salute degli uomini della pattuglia. Dovevano essere in perfetta forma mentale, e senza problemi fisici al corpo, alle gambe e ai piedi.

Andare in pattuglia con problemi soprattutto ai piedi feriti significava creare problemi agli altri mercenari e a non poter ritornare. Piedi e gambe in forma eccellente significava la salvezza, a parte le pallottole.

Usciti dalla sicurezza della base trincerata di Baraka, i mercenari sarebbero stati soli in un territorio ostile, sia per i nemici Simba, sia per i pericoli in agguato nelle foreste e nelle savane congolesi.

Era sempre possibile pestare un serpente Mamba… Sapevano che dovevano contare solo sul loro comandante e su ogni commilitone, oltre agli scout, senza i quali un mercenario bianco si sarebbe perso in quell’ambiente equatoriale.

Tullio controllò pure il funzionamento delle armi, se il numero dei caricatori fosse sofficiente, insieme all’attrezzatura sanitaria del “medic”, ossia del mercenario che, oltre che combattente, aveva le funzioni di primo intervento sanitario in caso di ferimento.  Infine, studiò ancora le carte topografiche con gli esperti.

Avrebbe avuto la copertura aerea di un cacciabombardiere T28, come osservatore dall’aria delle mosse dei Simba e in continuo contatto radio con la pattuglia. La pattuglia avrebbe avuto solo un armamento leggero, perché l’azione di guerriglia sarebbe stata quella del tipo “mordi e fuggi”.

Si sarebbe trattato un attacco improvviso e di una ritirata veloce per rientrare alla base, portando con sé gli ostaggi liberati. Ma non si conosceva la effettiva situazione.

Gli informatori congolesi parlavano di un villaggio stabile con circa un’ottantina di Simba, più qualche donna.

Quindi i mercenari avrebbero dovuto compiere con gli scout una osservazione dell’obiettivo, dove erano tenuti rinchiusi i cinque ostaggi e poi sferrare un attacco.

Ma sarebbero dovuti prima giungere sull’obiettivo, osservare la situazione, decidere e poi agire…

La pattuglia partì da Baraka con un solo camion, scortata dall’autoblindo Ferret di “Skinny” Coleman, più due serventi del mezzo.

Giunti alla base delle colline a nord ovest di Fizi gli uomini scesero dal camion, che fu mimetizzato, mentre Coleman metteva in posizione la mitragliatrice del Ferret sul sentiero da cui sarebbero poi ritornati i mercenari dopo l’azione, per respingere eventuali inseguitori Simba.

Il drappello dei volontari si incamminò verso quel villaggio Simba individuato sulla carta topografica.

Precedevano il drappello gli scout katanghesi che il tenente Mutambala forniva costantemente al 5 Commando, più un altro paio di mercenari esperti nel seguire le tracce.

Il drappello camminava veloce, senza parlare. Nelle fitte erbe della savana solo i piedi sentivano il sentiero.

Nelle foreste che attraversavano il caldo era afoso. Ma era ciò che incontravano sempre durante la stagione secca.

Mentre attraversavano una savana videro giungere di corsa uno scout che riferì al tenente Moneta che i mercenari e gli scout mandati in avanscoperta avevano intercettato le quattro suore bianche e i fratello missionario nero mentre lavavano i panni in un ruscello, guardate da cinque Simba armati, a circa quattrocento metri da lì, nella foresta… I mercenari e gli scout si erano acquattati, tenendo sotto tiro i Simba, che stavano chiacchierando tra di loro, con i kalashnikov buttati da una parte, lontani da loro.

Evidentemente, non si aspettavano un attacco.

Né pensavano ad una ribellione da parte delle religiose e del missionario nero.

In prossimità del ruscello dove erano le suore e i Simba, Tullio fece muovere i suoi uomini a semicerchio, spedendo contemporaneamente uno scout e un mercenario sul sentiero verso l’accampamento Simba, che era a circa cinquecento metri da lì.

Quando i mercenari uscirono allo scoperto con le armi spianate, lo stupore si dipinse sul volto dei Simba, delle religiose e del fratello missionario nero. La sorpresa aveva paralizzato i Simba che furono ammucchiati da una parte, sotto tiro delle armi, mentre alcuni mercenari prelevavano i kalashnikov.

Le suore erano macilente, provate, seminude.

Non erano una bella visione… Erano state violentate dai Simba.

Due di esse erano incinte; e si vedeva dal ventre gonfio.

Mentre i mercenari cercavano qualche camicia per ricoprire le nudità delle suore, la radio gracchiò: “Attenzione, attenzione, da Aquila Bianca a Tiger… I Simba del villaggio stanno velocemente venendo verso di voi. Aquila Bianca cercherà di impegnarli e di bloccarli per un quarto d’ora. È il tempo che noi possiamo avere per rimanere in zona prima di rientrare”.

Infatti, era quella l’autonomia che avevano in zona di combattimento gli aerei che partivano dalla base di Albertville, a sud del lago Tanganika.

Tullio dette ordine di rimettersi in marcia velocemente. “Sorelle – disse alle suore – sono spiacente, ma dobbiamo andare via di corsa, perché stanno arrivando i Simba”.

Non potendo portarsi dietro prigionieri, diede l’ordine a Piero Nebiolo di risolvere la cosa. I Simba sapevano di dover morire, ma erano impassibili. Era come se la morte non li riguardasse. Tullio osservava le suore, mentre risuonavano i cinque colpi di pistola di Nebiolo. I volti delle sorelle erano a loro volta impassibili.

Solo ad una suora un lampo di gioia velò gli occhi.

Evidentemente, dopo ciò che avevano subito dai Simba, l’idea della fratellanza tra gli uomini di tutte le razze era stata riconsiderata.

“Adesso dobbiamo andare veloci – disse Tullio ai liberati – Il T28 per un po’ fermerà i Simba, che resteranno immobili nelle erbe della savana per non essere mitragliati”.

Le suore e il missionario nero camminavano veloci come i mercenari, in silenzio.

Tullio aveva lasciato una piccola retroguardia per impegnare eventualmente i Simba in un combattimento di copertura.

Quando giunsero al camion e al Ferret dopo una marcia spossante le suore e il missionario nero si liberarono del peso dell’angoscia con cui avevano convissuto per mesi.

Si misero ad abbracciare i mercenari, a ridere e a piangere contemporaneamente.

Poi vennero portate con il camion a Fizi e lasciate in quella base del 5 Commando.

Sarebbero state riportate nei giorni successivi ad Albertville dalla loro madre superiora, suor Annunziata.

Quando alcuni giorni dopo venne fatta una spedizione armata più consistente per distruggere definitivamente quel villaggio Simba, i mercenari trovarono una radura vuota, senza più le capanne.

Evidentemente temevano un successivo attacco mercenario e quindi smantellarono le capanne, portandosi via i pali da riutilizzare per un nuovo villaggio da qualche altra parte.