Un po’ canaglie, un po’ eroi.I mercenari europei che hanno fatto l’Africa
Un libro fotografico appena uscito narra le gesta dei soldati di ventura bianchi
chiamati in Congo negli anni Sessanta contro la guerriglia marxista dei Simba
Di Adriano Scianca, La Verità, 8 dicembre 2020
«Di giorno in giorno si rafforzava la ripugnanza verso ogni cosa utile. La lettura e i sogni costituivano l’antidoto; ma le regioni in cui era possibile agire sembravano irraggiungibili. Là m’immaginavo un’audace società di uomini, il cui simbolo era il fuoco, il cui elemento era la fiamma. Per essere accolto in essa, o anche solo per conoscere un uomo di fronte al quale provare rispetto, avrei volentieri rinunciato a tutti gli onori che si possono conseguire con una delle tante attività umane». Nel 1913, per «conoscere uomini di fronte ai quali provare rispetto», l’appena diciottenne Ernst Jünger fugge dalla sua famiglia borghese e raggiunge l’Africa, arruolandosi nella Legione straniera. Il racconto tragicomico di quell’avventura giovanile, finita senza eroismi e con un cazziatone paterno, è narrato in Afrikanische Spiele. Anche nei decenni successivi, tuttavia, i giovani europei non hanno cessato di cercare il loro altrove avventuroso, di giocare i loro Ludi africani.
Le loro sono storie semi sconosciute, relegate in note a pie’ pagina nei libri che parlano dei misfatti occidentali nel Continente nero. Giovani di Milano, Amburgo, Anversa, Marsiglia finiti in qualche fossato congolese con un proiettile in testa, senza neanche un trafiletto sul giornale, magari senza neanche una tomba.
A parlarne, e a mostrare i loro volti, arriva ora Maktub, del giornalista e scrittore Ippolito Edmondo Ferrario, edito per i tipi di Ritter. Ferrario, che ha già trattato il tema dei soldati di ventura in altre sue pubblicazioni, raccoglie in Maktub i racconti di Robert Müller, giovane (negli anni Sessanta…) italiano di padre tedesco, ma di fatto milanesissimo.
E infatti l’avventura inizia proprio nella città meneghina, al Bacco, un bar di corso Vercelli. È lì che Robert, un giorno di ottobre del 1965, decide insieme a un amico di lasciare tutto e raggiungere il Congo per arruolarsi con i mercenari. In quegli anni, l’ex colonia belga era in forte agitazione.
Moise Ciombe aveva proclamato l’indipendenza della ricca regione mineraria del Katanga.
In suo soccorso, e in soccorso degli interessi minerari belgi nell’area, intervennero i mercenari europei, schierati contro l’Armée nationale congolaise e le truppe Onu. Ma, in una seconda fase, gli schieramenti si mescolano: Ciombe viene messo alla guida di un governo di unità nazionale, e le unità di mercenari bianchi ed ex gendarmi katanghesi vengono integrate nei reparti dell’Anc, che prima avevano combattuto, contro i ribelli Simba. Quella dei Simba era una rivolta etnosociale animata da un confuso ma fanatico sentimento revanscista.
Scrive Ferrario: «Giovanissimi, per lo più poveri e sbandati, i Simba venivano indottrinati all’odio indiscriminato per tutto ciò che era considerato americano ed europeo, convinti che con l’eliminazione fisica degli avversari avrebbero conquistato quella prosperità e quella ricchezza fino a quel momento negate; dunque l’ostacolo era rappresentato da tutti i bianchi, ma anche da quei congolesi che avevano sposato un modello di vita europeo, specie nelle grandi città.
Un’approssimativa infarinatura ideologica, credenze magico-religiose e il massiccio consumo di droghe furono gli elementi che contraddistinsero le milizie ribelli». È in questa seconda fase della guerra civile che Müller arriva in Congo. «Sui mercenari», racconta l’ex soldato di ventura, «ne hanno dette di tutti i colori. Sono gente priva di scrupoli, avventurieri, ultimi difensori del colonialismo, individui rapaci, crudeli, sanguinari, relitti di idee sorpassate, e chi più ne ha, più ne metta. Ma in realtà, qual è realmente il prototipo del mercenario? […] In fondo, si tratta di giovani muniti di scanzonato coraggio, refrattari a qualsiasi tipo di disciplina che non sia quella imposta da quei due o tre dei loro nei quali si riconoscono e che vengono accettati come capi. Sono degli anticomunisti per vocazione, questo sì.
Per questi svitati, tutto il resto non conta. Gli equilibri internazionali, gli accordi opportunistici tra i vari Stati, le regole: tutta zavorra».
Il libro colleziona ritratti incredibili, come quello, tanto per citarne uno, del corso Roger Bruni: arruolatosi con la Legione straniera a 19 anni, combatte subito a Saigon, poi entra nei paracadutisti coloniali. Si batte eroicamente a Dien Bien Phu, dove viene fatto prigioniero, poi raggiunge l’Algeria e partecipa alla battaglia di Algeri.
Nel 1965 si congeda dall’esercito e si arruola tra i mercenari in Congo. Poi parte per la guerra dello Yemen e infine segue Bob Denard nel golpe alle isole Comore e ancora nel Benin. Muore nel 1980, durante un banale intervento chirurgico.
Non ci si stupisce che Müller, dopo aver combattuto a fianco di gente del genere, fatichi a comprendere coloro che ha lasciato al bar Bacco: «Quando, mesi dopo, sarei rientrato in licenza in Italia, mi sarei reso conto che non avevo più niente in comune con i miei coetanei.
Non un vanto, ma una constatazione. Il Robert di un tempo, il “biondino” che arrivava sempre in ritardo, che giocava a flipper e che indossava pure l’eskimo, era morto, svanito, un giorno, durante il primo rastrellamento compiuto a Stanleyville, vicino all’aeroporto, lungo la cosiddetta “pista degli elefanti”».
Anche coloro che non erano partiti per l’Africa, tuttavia, è probabile che in certe serate strimpellassero gli accordi della celebre canzone del Bagaglino, cantata da Pino Caruso e poi riprodotta in infinite versioni, Il mercenario di Lucera: «Son morto nel Katanga / venivo da Lucera / avevo 40 anni / e la fedina nera…».
Se i racconti del giovane idealista sono emozionanti, il pezzo forte del libro è tuttavia il corposissimo apparato fotografico. Immagini bellissime, dove l’Africa sembra essere davvero quella sognata dal giovane Jünger e a dominarvi emerge veramente «un’audace società di uomini, il cui simbolo era il fuoco».
Giovani sfatti dopo un rastrellamento, in pose goliardiche al campo base, scene di guerra, di morte, di vita, di relax, di gioco. Les affreux, li chiamavano. I terribili. Les affreux . Soldati di ventura in Africa, è anche il titolo di una graphic novel recentemente pubblicata da Ferrogallico, con sceneggiatura sempre di Ippolito Edmondo Ferrario e apparato critico di Alberto Palladino e Franco Nerozzi.
È quest’ultimo a raccontarci l’universo mercenario come «il mondo dell’avventura più straordinaria. Quella dove varchi il limite di ogni sicurezza e ti lanci a capofitto nel seducente mare dell’ignoto. Dove tutto è possibile: morire male, per mano di sanguinari “selvaggi” oppure diventare “re” per qualche giorno, in terre lontane, ancora governate dalla volontà e dal coraggio di chi se le vuole prendere.
È l’avventura che soltanto la guerra ti può dare, con il suo corredo di sentimenti forti, di esaltazione, di fratellanza con chi condivide il tuo impeto e la tua paura». Tornano in mente i versi finali de Il mercenario di Lucera: «Addio verdi colline / ormai scende la notte / i fuochi sono spenti / addio dolci mignotte / con le vostre guepières / ho fatto una bandiera / portatela agli amici / che invecchiano a Lucera. / Viva la morte mia / viva la gioventù».
28 ottobre 1967. La morte del volontario Guy Leleup
Leleup era un volontario belga, ma nato in Congo. «Guy morì da eroe il 28 ottobre del 1967 durante le ultime fasi dell’assedio di Bukavu. Rimase a proteggere la ritirata dei suoi compagni e cadde prigioniero. Quando il colonello Schramme con altri uomini giunse in suo soccorso, Leleup, mentre era tenuto legato ad un albero, urlò a Scharamme avvisandolo dell’imminente imboscata e permettendogli di salvarsi. Leleup fu ucciso con un colpo di pistola in fronte. Venne poi decapitato e la sua testa infilzata su una baionetta per essere portata come trofeo dai soldati congolesi dell’ANC. Questa è la vera storia della morte di Guy Leleup del Para Groupe Cobra».
Così lo ricorda in alcuni significativi passaggi il colonello Jeanne Scharamme nel suo libro di memorie Il Battaglione Léopard.Ricordi di un africano bianco: «Di tutti i nuovi provenienti dalla 6a brigata quello che mi impressionò maggiormente fu il maresciallo Guy Leleup. Era un giovane idealista che conosceva perfettamente gli indigeni e ne parlava correttamente la lingua. Solitario per natura, era mal compreso dal suo comandante, il maggiore Noddyn. Ragazzi del genere erano l’opposto di ciò che normalmente viene chiamato un “mercenario”. Non poteva andar assolutamente d’accordo con Bob Denard e il suo lavoro non era mai stato apprezzato; ma è risaputo che i caratteri energici e le nature generose si rivelano nelle avversità (…)». Compresi subito che la morte di Leleup era un fatto estremamente grave: perdevo una delle posizioni-chiave ma anche uno dei miei migliori ufficiali, un vero simbolo di ciò che stavamo tentando di salvare in Congo: la fratellanza nelle armi tra bianchi e neri».
Tratto da: Robert Muller, Ippolito Edmondo Ferrario, Maktub. Congo-Yemen 1965/1969, Ritter Edizioni.
Pier Giorgio Norbiato, conosciuto meglio come Giorgio Norbiato, è stato tra i migliori volontari italiani presenti in Congo. Nato ad Aosta, era diventato incursore della Marina Militare nella quale aveva prestato servizio per sei anni. Dopo il congedo operò come sommozzatore per una società italiana specializzata nel recupero di navi affondate. Durante gli anni della crisi congolese si arruolò nel 6º BCE e si mise in luce per le doti combattive guadagnandosi anche il soprannome di “Le fasciste” per le simpatie politiche.
Si distinse in alcune operazioni anfibie condotti sui fiumi, terreno evidentemente ideale per l’ex incursore di marina. L’ultima di queste condotte in Congo fu quella denominata Alfa e coordinata da Bob Denard, con l’obiettivo di liberare dalla prigionia sull’isola fluviale di Boula Beba il leader Godefroid Munongo. L’operazione, che doveva essere notturna, per una serie di ritardi avvenne in pieno giorno e fallì. Caduta in un’imboscata, la squadra di volontari si salvò grazie a Norbiato.
La sua storia assomiglia a quella di altri volontari stranieri, se non fosse che dopo il Congo Giorgio partì per un nuovo ingaggio, questa volta nella regione del Biafra in lotta per l’indipendenza dal governo centrale nigeriano. Giunto sul posto gli fu comunicato che non sarebbe stato pagato. Lui decise di rimanere lo stesso e di combattere agli ordini del comandante tedesco Rolf Steiner insieme ad altri quattro volontari europei. Grazie all’esperienza maturata negli incursori italiani trasformò alcuni modesti Chris-Craft in una piccola flottiglia armata con cui riuscì ad assaltare una nave nemica carica di jeep Land Rover e viveri, difesa a sua volta da motovedette armate.
Nel Biafra Norbiato trovò la morte. Ferito e senza possibilità di essere evacuato, si piazzò in una buca con la propria MAG per coprire la ritirata dei suoi, sparando fino all’ultimo colpo e sacrificandosi. Giorni dopo lo stesso comandante Steiner organizzò con pochi uomini una sanguinosa incursione all’aeroporto di Enugu. La notizia della sua morte giunse in Italia grazie allo scrittore e giornalista Goffredo Parise, che si assunse l’impegno di portare alla madre di Norbiato i pochi effetti personali del figlio morto. La sua fama di soldato coraggioso e generoso persistette a lungo nel paese africano. Il suo corpo non è mai stato riportato in Italia. E sempre nello stesso anno il giornalista Renzo Allegri gli dedicò un lungo servizio sulle pagine del settimanale «Gente». Così Girolamo Simonetti lo ricorda nel suo libro Il bottino del mercenario: «Camerata Norbiato, ucciso nel Biafra qualche anno dopo nella difesa di Port Harcourt. Abbandonato dai negri in fuga e rimasto, solo, a difendere la posizione fino all’ultima cartuccia. Non avrebbe potuto fare altra fine e forse è stato meglio così. Coerente con sé stesso, fino all’ultimo. La vita intesa come una singolare emozionante partita col destino. Norbiato, che dopo aver vinto delle fortune a poker, in una sola puntata gioca tutto sulla roulette di St. Vincent. Tanto c’è già pronto un altro contratto mercenario… Ha giocato l’ultima partita a modo suo. E noi, ancora qui a rimestare le carte…».
Nel 1974 lo scrittore inglese Frederick Forsyth pubblicò il best-seller I mastini della guerra, frutto della sua permanenza in Biafra nelle vesti di giornalista; nella dedica del libro ricordò così Norbiato e altri volontari presenti: «A Giorgio, a Christian e a Schlee / A Big Marc e a Black Johnny / A tutti gli altri nelle tombe anonime. / Perlomeno tentammo».
Tratto dal libro “Maktub Congo-Yemen 1965/1969” di R. Muller e I.E. Ferrario, Ritter Edizioni
Nove anni fa, con poca esperienza e molto entusiasmo, mi accostavo al mondo dei tanto vituperati “mercenari” che avevano combattuto in Congo negli anni Sessanta del secolo scorso. Qualche anno dopo, nel 2018, avrei avuto l’onore e la fortuna di raccogliere le memorie di uno di loro. Un racconto disincantato, intenso e sferzante da cui nacque il libro scritto a quattro mani con Robert Muller. Ritenevo che con quel lavoro potessi voltare pagina e dedicarmi ad altro.
A gennaio di quest’anno, un giorno come un altro, prese forma inaspettatamente un vecchio progetto mai realizzato e di cui di tanto in tanto accennavo a Robert: realizzare un libro fotografico sulla sua esperienza da volontario nel Congo e nello Yemen. Nel giro di qualche giorno mi ritrovai in possesso del suo vasto archivio composto da un qualche centinaio di scatti dell’epoca. L’impegno era quello di raccontare non tanto la sua vicenda personale quanto, attraverso le immagini, quella dei suoi commilitoni, i tanti ragazzi di allora, molti dei quali non hanno fatto ritorno.
Oggi, mentre il libro è quasi pronto per essere consegnato all’editore, sento l’impegno di tenere acceso il riflettore su di loro, i “soldati liberi” di quel tempo. L’avventura per me è ricominciata e si prospetta lunga.
Vi lascio con le parole di Nony, al secolo Girolamo Simonetti, l’amico fraterno con cui Robert partì da Milano alla volta del Congo. Correva il 1965. Quel Nony che ho sentito nominare innumerevoli volte a tal punto da avere l’impressione che fosse ancora qui tra noi, tanto è nitido il suo ricordo in quelli che lo hanno conosciuto. Nony, alla fine del suo libro (Il bottino del mercenario, Ciarrapico Editore, 1987) così scrisse sulle schiere di ragazzi ai quali si era unito in Congo:
Forse, fra tutti i paragoni fatti, quello che mi sento d’accettare più vicino allo spirito mercenario è quello con i pirati. Pirati all’arrembaggio in un mare ostile di incomprensioni, che necessita della loro presenza ma li disprezza, un mare di opportunismi, di accordi al vertice, di materialismi d’ogni colore, di specioso e interessato perbenismo. Pirati del XX secolo, che difendono la loro filibusta con la sciabola in una mano mentre con l’altra ghermiscono una bottiglia di rum (o di Primus in questo caso) e combattono irridendo al nemico, incuranti di tutto e di tutti.
I maggiori quotidiani italiani hanno dato la notizia della morte sopraggiunta il 3 febbraio 2020 evocando le sue imprese e la sua fama (https://www.corriere.it/cronache/20_febbraio_03/muore-100-anni-mike-hoare-fu-piu-leggendario-mercenari-48b78154-465c-11ea-afe7-221784afa655.shtml https://www.repubblica.it/esteri/2020/02/03/news/sudafrica_morto_mercenario_mad_mike-247518288/ )
Alla veneranda età di 100 anni se ne è andato Mad “Mike” Hoare, comandante del Quinto Commando (formato per lo più da volontari di guerra anglosassoni, sudafricani e rhodesiani), protagonista di numerose imprese nell’ ex Congo Belga. Hoare si è spento nel suo letto, a Durban, in Sudafrica.
Il suo nome rimarrà indissolubilmente legato a quell’epopea, ancora poco raccontata, dei cosiddetti soldati di ventura che nel secondo dopo guerra combatterono in svariati teatri di guerra, soprattutto africani. Al colonnello Hoare si ispirò la pellicola cinematografica, successo di incassi, “I quattro dell’oca selvaggia” (1978) per la quale fu coinvolto nelle vesti di consulente. Hoare fu anche il fautore di un rocambolesco tentativo di golpe alle isole Seychelles nel 1981.
Riporto qui di seguito alcuni estratti dell’intervista che feci a colui che con “Mad” Mike Hoare condivise parte delle sue imprese, uno dei pochi italiani in forza al Quinto Commando: il maggiore Tullio Moneta.
A Tullio Moneta insieme a Giorgio Rapanelli, ho dedicato una biografia, edita dalle Edizioni Lo Scarabeo-Ritter di Milano nel 2014. (http://www.ritteredizioni.com)