Un po’ canaglie, un po’ eroi. I mercenari europei che hanno fatto l’Africa

Un po’ canaglie, un po’ eroi. I mercenari europei che hanno fatto l’Africa

Un po’ canaglie, un po’ eroi.I mercenari europei che hanno fatto l’Africa
Un libro fotografico appena uscito narra le gesta dei soldati di ventura bianchi
chiamati in Congo negli anni Sessanta contro la guerriglia marxista dei Simba
Di Adriano Scianca, La Verità, 8 dicembre 2020

«Di giorno in giorno si rafforzava la ripugnanza verso ogni cosa utile. La lettura e i sogni costituivano l’antidoto; ma le regioni in cui era possibile agire sembravano irraggiungibili. Là m’immaginavo un’audace società di uomini, il cui simbolo era il fuoco, il cui elemento era la fiamma. Per essere accolto in essa, o anche solo per conoscere un uomo di fronte al quale provare rispetto, avrei volentieri rinunciato a tutti gli onori che si possono conseguire con una delle tante attività umane». Nel 1913, per «conoscere uomini di fronte ai quali provare rispetto», l’appena diciottenne Ernst Jünger fugge dalla sua famiglia borghese e raggiunge l’Africa, arruolandosi nella Legione straniera. Il racconto tragicomico di quell’avventura giovanile, finita senza eroismi e con un cazziatone paterno, è narrato in Afrikanische Spiele. Anche nei decenni successivi, tuttavia, i giovani europei non hanno cessato di cercare il loro altrove avventuroso, di giocare i loro Ludi africani.
Le loro sono storie semi sconosciute, relegate in note a pie’ pagina nei libri che parlano dei misfatti occidentali nel Continente nero. Giovani di Milano, Amburgo, Anversa, Marsiglia finiti in qualche fossato congolese con un proiettile in testa, senza neanche un trafiletto sul giornale, magari senza neanche una tomba.

A parlarne, e a mostrare i loro volti, arriva ora Maktub, del giornalista e scrittore Ippolito Edmondo Ferrario, edito per i tipi di Ritter. Ferrario, che ha già trattato il tema dei soldati di ventura in altre sue pubblicazioni, raccoglie in Maktub i racconti di Robert Müller, giovane (negli anni Sessanta…) italiano di padre tedesco, ma di fatto milanesissimo.

E infatti l’avventura inizia proprio nella città meneghina, al Bacco, un bar di corso Vercelli. È lì che Robert, un giorno di ottobre del 1965, decide insieme a un amico di lasciare tutto e raggiungere il Congo per arruolarsi con i mercenari. In quegli anni, l’ex colonia belga era in forte agitazione.

Moise Ciombe aveva proclamato l’indipendenza della ricca regione mineraria del Katanga.

In suo soccorso, e in soccorso degli interessi minerari belgi nell’area, intervennero i mercenari europei, schierati contro l’Armée nationale congolaise e le truppe Onu. Ma, in una seconda fase, gli schieramenti si mescolano: Ciombe viene messo alla guida di un  governo di unità nazionale, e le unità di mercenari bianchi ed ex gendarmi katanghesi vengono integrate nei reparti dell’Anc, che prima avevano combattuto, contro i ribelli Simba. Quella dei Simba era una rivolta etnosociale animata da un confuso ma fanatico sentimento revanscista.

Scrive Ferrario: «Giovanissimi, per lo più poveri e sbandati, i Simba venivano indottrinati all’odio indiscriminato per tutto ciò che era considerato americano ed europeo, convinti che con l’eliminazione fisica degli avversari avrebbero conquistato quella prosperità e quella ricchezza fino a quel momento negate; dunque l’ostacolo era rappresentato da tutti i bianchi, ma anche da quei congolesi che avevano sposato un modello di vita europeo, specie nelle grandi città.

Un’approssimativa infarinatura ideologica, credenze magico-religiose e il massiccio consumo di droghe furono gli elementi che contraddistinsero le milizie ribelli». È in questa seconda fase della guerra civile che Müller arriva in Congo. «Sui mercenari», racconta l’ex soldato di ventura, «ne hanno dette di tutti i colori. Sono gente priva di scrupoli, avventurieri, ultimi difensori del colonialismo, individui rapaci, crudeli, sanguinari, relitti di idee sorpassate, e chi più ne ha, più ne metta. Ma in realtà, qual è realmente il prototipo del mercenario? […] In fondo, si tratta di giovani muniti di scanzonato coraggio, refrattari a qualsiasi tipo di disciplina che non sia quella imposta da quei due o tre dei loro nei quali si riconoscono e che vengono accettati come capi. Sono degli anticomunisti per vocazione, questo sì.

Per questi svitati, tutto il resto non conta. Gli equilibri internazionali, gli accordi opportunistici tra i vari Stati, le regole: tutta zavorra».

Il libro colleziona ritratti incredibili, come quello, tanto per citarne uno, del corso Roger Bruni: arruolatosi con la Legione straniera a 19 anni, combatte subito a Saigon, poi entra nei paracadutisti coloniali. Si batte eroicamente a Dien Bien Phu, dove viene fatto prigioniero, poi raggiunge l’Algeria e partecipa alla battaglia di Algeri.

Nel 1965 si congeda dall’esercito e si arruola tra i mercenari in Congo. Poi parte per la guerra dello Yemen e infine segue Bob Denard nel golpe alle isole Comore e ancora nel Benin. Muore nel 1980, durante un banale intervento chirurgico.

Non ci si stupisce che Müller, dopo aver combattuto a fianco di gente del genere, fatichi a comprendere coloro che ha lasciato al bar Bacco: «Quando, mesi dopo, sarei rientrato in licenza in Italia, mi sarei reso conto che non avevo più niente in comune con i miei coetanei.

Non un vanto, ma una constatazione. Il Robert di un tempo, il “biondino” che arrivava sempre in ritardo, che giocava a flipper e che indossava pure l’eskimo, era morto, svanito, un giorno, durante il primo rastrellamento compiuto a Stanleyville, vicino all’aeroporto, lungo la cosiddetta “pista degli elefanti”».

Anche coloro che non erano partiti per l’Africa, tuttavia, è probabile che in certe serate strimpellassero gli accordi della celebre canzone del Bagaglino, cantata da Pino Caruso e poi riprodotta in infinite versioni, Il mercenario di Lucera: «Son morto nel Katanga / venivo da Lucera / avevo 40 anni / e la fedina nera…».
Se i racconti del giovane idealista sono emozionanti, il pezzo forte del libro è tuttavia il corposissimo apparato fotografico. Immagini bellissime, dove l’Africa sembra essere davvero quella sognata dal giovane Jünger e a dominarvi emerge veramente «un’audace società di uomini, il cui simbolo era il fuoco».

Giovani sfatti dopo un rastrellamento, in pose goliardiche al campo base, scene di guerra, di morte, di vita, di relax, di gioco. Les affreux, li chiamavano. I terribili. Les affreux . Soldati di ventura in Africa, è anche il titolo di una graphic novel recentemente pubblicata da Ferrogallico, con sceneggiatura sempre di Ippolito Edmondo Ferrario e apparato critico di Alberto Palladino e Franco Nerozzi.

È quest’ultimo a raccontarci l’universo mercenario come «il mondo dell’avventura più straordinaria. Quella dove varchi il limite di ogni sicurezza e ti lanci a capofitto nel seducente mare dell’ignoto. Dove tutto è possibile: morire male, per mano di sanguinari “selvaggi” oppure diventare “re” per qualche giorno, in terre lontane, ancora governate dalla volontà e dal coraggio di chi se le vuole prendere.

È l’avventura che soltanto la guerra ti può dare, con il suo corredo di sentimenti forti, di esaltazione, di fratellanza con chi condivide il tuo impeto e la tua paura». Tornano in mente i versi finali de Il mercenario di Lucera: «Addio verdi colline / ormai scende la notte / i fuochi sono spenti / addio dolci mignotte / con le vostre guepières / ho fatto una bandiera / portatela agli amici / che invecchiano a Lucera. / Viva la morte mia / viva la gioventù».

 

ACCADDE DOMANI. 25 NOVEMBRE 1981. IL TENTATO GOLPE ALLE ISOLE SEYCHELLES NELLA TESTIMONIANZA DI TULLIO MONETA (Seconda parte)

ACCADDE DOMANI. 25 NOVEMBRE 1981. IL TENTATO GOLPE ALLE ISOLE SEYCHELLES NELLA TESTIMONIANZA DI TULLIO MONETA (Seconda parte)

ACCADDE DOMANI. 25 NOVEMBRE 1981. IL TENTATO GOLPE ALLE ISOLE SEYCHELLES NELLA TESTIMONIANZA DI TULLIO MONETA (Seconda parte)

Lavoro di intelligence

Comunque sia, la pianificazione del golpe continuò.

Nel 1981 Hoare e Tullio fecero un sopralluogo nelle Seychelles. Hoare ripartì, mentre Tullio rimase. 

Tullio ebbe contatti con la Résistence, fece un sopralluogo alla stazione satellitare USA sul monte Mahé, controllò l’ambasciata sovietica dall’esterno, disegnò cartine e planimetrie della State House, del Palazzo del Governo, degli uffici del Presidente al Centro Vittoria, dell’aeroporto, dei posti della guarnigione, delle difese antiaree, delle baracche nell’aeroporto dei soldati  delle Seychelles, tanzaniani e nordcoreani.

Ritornato in Sudafrica Tullio fece una riunione con i mercenari a casa sua, a Johannesburg.

Il 23 novembre 1981 organizzò una seconda riunione sempre a casa sua a Johannesburg, a cui parteciparono tutti i mercenari, insieme a Pieter  Doorewaard e Paddy Henrick del Recce, all’austriaco-svedese Sven Forsell, produttore e regista cinematografico che voleva fare un film sui mercenari, e al noto Kevin Beck.

Alla fine giunse il momento dell’azione:  partirono da Ermelo, una cittadina del Sud Africa, attraversarono il confine con lo Swaziland per prendere il Fokker che li avrebbe portati all’aeroporto delle Seychelles con gli AK47 nascosti nel doppio fondo dei loro borsoni. 

25 novembre 1981

Tralasciamo tutto ciò che è stato già riportato da libri e articoli, con l’arrivo del Fokker dei mercenari, camuffati da rugbisti e sotto la copertura dell’associazione Ye Ancient Order of Frothblowers (l’Antico Ordine dei Bevitori di Birra), effettivamente esistente nel Regno Unito. 

Frothblowers significa “colui che soffia via la schiuma” (come per la birra). Soprattutto è determinante la testimonianza di Mike Hoare nel suo libro The Seychelles Affair, alla seconda ristampa nel 2008.

Guardiamo la scena al presente con gli occhi del testimone Tullio Moneta…

Dopo il “guaio” capitato al borsone di Beck con la scoperta dell’AK47 e dopo che è stato dato l’allarme, Tullio ricorda che Geremiah Puren grida «act!», ovvero esorta ad agire.

Tullio monta in 20 secondi l’AK47 che aveva nel sottofondo del suo borsone e si precipita nei locali della dogana.

All’improvviso si apre la porta di un ufficio ed escono due doganieri armati con l’AK47. Tullio ne affronta uno e lo sbatte contro il muro, disarmandolo. L’altro spara una raffica, colpisce tra il petto e la spalla Johann Fritz, un giovane di 20 anni del Recce Commando. Poi si volatilizza.  

Mentre Tullio chiama il medico della spedizione, dottor De Wet , Fritz viene soccorso immediatamente da due compagni del Recce.

Uno dei due è Paddy Henrick, che mi ha precisato in una lettera: «Ero con Tullio quando Johann morì. Sono arrivato quando era già a terra e cercai di confortarlo come meglio potevo. Era un mio grande amico. In quell’anno aveva corso la Comrades Marathon, una maratona in canoa nel fiume Duzi, e aveva conseguito pure due lauree.»

Il medico in forza al commando, dopo aver visitato Fritz, fa segno a Tullio e a Hoare  che non c’è nulla da fare, poiché il colpo ha reciso l’aorta.

Fritz vivrà per altri 10 minuti. Era figlio di una ricca famiglia sudafricana proprietaria di miniere.

Anthony Mockler ed altri giornalisti hanno scritto che il giovane Fritz sarebbe stato ucciso da “fuoco amico”.

E’ falso. Tullio Moneta e Paddy Henrich erano presenti ed hanno visto come sono andati i fatti: il giovane Fritz non è stato colpito dal friendly fire, ma dalla raffica del doganiere.

Nessuno ha mai chiesto a Tullio e a Paddy di raccontare la verità.

I mercenari scovano in un ufficio vicino all’aeroporto cinque impiegati, tre uomini e due donne.

Li portano dentro l’aeroporto e Tullio li fa rinchiudere in una stanza per metterli al sicuro. Uno di questi si mette ad inveire contro i mercenari, mentre gli altri quattro cercano di zittirlo.

Tullio capisce che è il solito sbruffone e dice: «Piantatela! Siamo qui per fare un lavoro. Non rompete le scatole.»

Tullio requisisce insieme al capitano inglese Mike Webb uno degli autobus che doveva trasportarli all’albergo in cui sarebbero stati alloggiati e che stazionavano all’uscita dell’aeroporto.

Ordina di andare verso le baracche dei soldati tanzaniani che sono a metà strada di lato della pista di atterraggio dell’aeroporto, mentre quelle dell’esercito delle Seychelles sono al termine della pista. 

Il pullman arriva alle baracche dei tanzaniani.

Le baracche consistono in diversi edifici tipo bungalow, ad eccezione di una casa che è di tre piani.

Intanto Tullio ed altri mercenari fanno di corsa i circa 300 metri che li separano dalle baracche dei tanzaniani e le circondano a semicerchio.  

Giunto insieme ai suoi viene accolto da due o tre colpi sparati dalle baracche. I mercenari aprono un fuoco intensivo.

Tullio ordina di sparare al secondo piano della casa in modo che i colpi vadano pure sulle scale di collegamento tra il primo e il terzo piano. 

I tanzaniani scappano. Dei nord coreani neppure l’ombra: si erano squagliati ai primi colpi provenienti  dall’aeroporto.

Tullio e i suoi si dirigono poi verso le baracche dell’esercito delle Seychelles che sono in fondo alla pista di atterraggio. Da dietro le baracche escono quattro autoblindo sovietiche. Due di queste rimangono a difesa delle baracche e due si dirigono verso l’aeroporto.

Tullio ordina al capitano Webb di ritornare con il pullman all’aeroporto per organizzare la difesa.

Tullio stesso ritorna indietro poiché è impossibile fronteggiare le autoblindo senza un bazooka.

Un autoblindo rimane indietro, mentre l’altra attacca l’aeroporto sparando con la mitragliatrice da 12,7 mm. della torretta girevole.

Le pallottole con l’anima interna in tungsteno perforano i muri dell’aeroporto. Per i mercenari asserragliati nell’aeroporto si sta mettendo male.

Tullio accerchia con i suoi l’autoblindo e ordina a Peter Rowain di “accecare” l’autoblindo, spalmandone il visore con il fango di una fogna a cielo aperto.  L’autoblindo “accecata”, una BTR sovietica, finisce con due ruote nella fogna e si inclina da un lato.

A questo punto la mitragliatrice da una parte spara verso l’alto e non può più colpire gli attaccanti. Quindi i mercenari si posizionano da quella parte sicura e ordinano agli uomini dell’autoblindo di arrendersi, altrimenti li avrebbero bruciati con le molotov che avevano preparato svuotando bottiglie di cognac del bar dell’aeroporto e riempiendole di benzina.

Mike Hoare chiede a Tullio di dire in francese all’equipaggio dell’autoblindo: «Arrendetevi, o vi bruciamo!»

Allora dalla cima della torretta appare il tenente (di nome Adnan) che comandava l’autoblindo con il mitra in mano e per questo motivo viene freddato da una decina di colpi esplosi contemporaneamente da Tullio e da tre commando. Il corpo del tenente cade dentro l’autoblindo. 

Anthony Mockler scrive che il tenente venne ucciso dall’equipaggio, in quanto voleva impedire che i suoi soldati si arrendessero.

E’ falso anche questo.

A questo punto ai soldati dell’autoblindo non rimane che arrendersi ed escono dalla torretta uno dopo l’altro, con le mani alzate.

Vengono fatti spogliare completamente nudi e cacciati via.

Si tenta di recuperare l’autoblindo, ma il circuito elettrico della torretta è saltato e la mitragliatrice è quindi inservibile. L’autoblindo viene allora abbandonata.

Al suo interno i mercenari trovano alcuni razzi anticarro, ma senza il lanciarazzi sono inservibili. Intanto, i mercenari si sono asserragliati nell’aeroporto.

La torre di controllo era stata occupata fin dall’inizio e Charles “Chaz” Goatley, che era stato pilota militare e caposquadriglia, quindi uno del mestiere, inizia a controllare il traffico aereo, soprattutto nel caso arrivassero aerei nemici.

I mercenari, proprio per evitare l’atterraggio di aerei nemici, mettono alcuni camion e automezzi  lungo la pista di atterraggio.

Resisi conto della situazione disperata, il gruppo di mercenari comincia a pensare di ripartire con il Fokker che li aveva portati alle Seychelles, ma i piloti erano fuggiti ed erano introvabili.

Sta intanto giungendo un Boeing 707 dell’Air India, proveniente da Harare, capitale dello Zimbabwe, e diretto a Bombay. Deve atterrare per forza, poiché non ha più carburante.

Infatti, il metodo usato dalla Air India per risparmiare soldi del carburante era di partire con i serbatoi piuttosto vuoti, in modo da fare il pieno alle Seychelles, dove il carburante era meno costoso.

 Chaz” Goatley invita il Boeing a non atterrare poiché la pista è interrotta. Inizia un dialogo attraverso la radio.

Il comandante del Boeing, Saxena, dice: «Devo atterrare, non ho più il carburante» «No, non puoi» risponde “Chaz” dalla torre di controllo.

«Fammi parlare con il capo della torre di controllo»

«Non è possibile. E’ assente. La pista è pure occlusa»

«Bene, io atterro lo stesso» conclude il comandante.

Non può farne a meno. Capisce però che c’è qualcosa di strano che sta accadendo. Egli è stato pilota della RAF durante l’ultima guerra ed è quindi abituato a decidere in situazioni estreme. Il comandante del Boeing, il cui vice è il capitano Misra, inizia l’atterraggio. 

 Nel farlo, il Boeing tocca con l’ala un camion che intralciava la  pista sbalzandolo ad almeno 25 metri di distanza. L’ala non viene danneggiata seriamente.

Mentre inizia il rifornimento, il comandante scende dal Boeing veramente arrabbiato.

Immagina che stia accadendo realmente qualcosa di strano. Tullio invia il capitano mercenario Ricky Stannard incontro al comandante, a cui fa un inchino dicendo: «Benvenuto alle Seychelles».

Poi il comandante Saxena parla con Hoare e con Tullio, il quale inizia a spiegargli la situazione in atto. Proprio in quel momento inizia un cannoneggiamento con 2 o 3 pezzi da  75 mm. da una distanza di circa 400 metri dalla pista, per colpire il Boeing.  

Se lo avessero colpito avrebbero fatto una strage di passeggeri. La tragedia sarebbe stata  imputata soprattutto a Mike Hoare.

Hoare contatta telefonicamente la State House per parlare con il presidente René, o con il suo “uomo forte” Berlouis, per un cessate il fuoco.

Occorre salvare la vita dei passeggeri del Boeing dell’Air India. Inizia una trattativa. Poi, il comandante del Boeing parla direttamente con il presidente René: il Boeing, che ha 40 passeggeri, ma ne può trasportare almeno 120, può ripartire non appena effettuato il rifornimento.

Poco dopo i colpi di cannone cessano, evidentemente dietro ordine del presidente René. 

Erano stati sparati una quindicina di colpi: fortunatamente i serventi ai cannoni erano poco addestrati, altrimenti sarebbe stata una strage.

Il golpe era durato dalle 18,00 alle 24,00.

Dove andare?

Messo in salvo il Boeing si presenta un problema: ormai l’attacco era fallito.

Ci sarebbe pure il pericolo di un intervento armato dei “marines” sovietici e sarebbero dolori e grane diplomatiche. Quindi dove fuggire con questo Boeing?

Utilizzarlo, o meglio dirottarlo diventa un atto di “pirateria aerea”.

Se si continua con il Boeing fino a Bombay si viene arrestati per “pirateria aerea”, processati e condannati a morte poiché in India questa sarebbe la condanna. 

Lo dirottiamo nell’Oman – si chiedono i mercenari – dove Mike Webb era già stato come consigliere militare? Oppure, in Kenya, per via degli accordi segreti di occupazione delle Seychelles da parte del governo keniota?

Solo che quel governo non vorrebbe che i piani venissero alla luce del sole, attuati addirittura con mercenari sudafricani…

Tullio propone di farsi portare nel Botswana, che confina col Sudafrica, e da lì passare la frontiera del Sudafrica. Soluzione scartata, perché troppo macchinosa e piena di incognite. Alla fine si decide di atterrare a Durban, in Sudafrica.

Mike Hoare propone di distruggere le armi prima del decollo. Tullio si oppone con forza all’idea del suo colonnello, poiché non vuole finire massacrato insieme ai suoi uomini, qualora dovessero rimanere a terra per qualche motivo. 

Tullio dice: «L’aereo è danneggiato e potrebbe non decollare. Se poi dovesse decollare, potremmo essere colpiti da quella mitragliera sovietica a quattro canne da 14,5 mm., in postazione tra le baracche dei soldati in fondo alla pista. In questo caso, il Boeing dovrebbe atterrare di nuovo e noi, disarmati, potremmo essere catturati o ammazzati.»

Giorgio Rapanelli, Ippolito Edmondo Ferrario, “Mercenario. Dal Congo alle Seychelles. La vera storia di Chifambausiku Tullio Moneta”, Edizioni Lo Scarabeo, Milano

Accadde Domani. 24 novembre 1964. Inizia l’operazione Dragon Rouge per liberare Stanleyville

Accadde Domani. 24 novembre 1964. Inizia l’operazione Dragon Rouge per liberare Stanleyville

24 novembre 1964. Inizia l’operazione Dragon Rouge per liberare Stanleyville

L’episodio più significativo legato al loro modus operandi (dei Simba)  rimane la presa della città di Stanleyville avvenuta nel settembre del 1964 quando i Simba, dopo aver messo in fuga le truppe dell’ANC, mantennero la città sotto il loro controllo per intere settimane proclamando la Repubblica Popolare del Congo guidata dal presidente Christophe Gbenye. Gli europei presenti a Stanleyville divennero ostaggi. Sotto il comando del sanguinario generale Nicholas Olenga i Simba si diedero ad ogni forma di violenza: stupri, ruberie, sevizie, omicidi. Il monumento presente a Stanleyville e dedicato alla figura del “martire” Lumumba divenne il teatro di uccisioni di massa: qui vennero condotti più di un centinaio di congolesi appartenenti al ceto medio, impiegati, intellettuali, politici, amministratori locali. Tutti vennero fucilati o fatti a pezzi, alcuni mangiati come Sylvestere Bondekwe, responsabile di un movimento politico moderato a cui fu strappato il fegato ancora vivo per essere poi mangiato dai presenti. Stessa sorte toccò al borgomastro Léopold Matabo che venne fatto a pezzi; mentre era ancora vivo e agonizzante le sue carni furono in parte mangiate e in parte destinate al macello. Morì per decapitazione. L’abate Etienne e il segretario provinciale Gabrielle Belette furono scorticati vivi e alcuni dei presenti orinarono addosso ai due oltre a mangiarne la pelle. Scene così si ripeterono per giorni.
La liberazione della città sarebbe giunta solo con l’intervento dei paracadutisti belgi il 24 novembre del 1964 che con l’operazione “Dragon Rouge” posero fine all’incubo per gli europei tenuti in ostaggio. Durante l’arrivo dei parà furono comunque massacrati alcune decine di ostaggi.
Per questa incapacità da parte dell’ANC di ripristinare l’ordine e debellare la piaga dei Simba fu dato il via da parte del governo congolese dell’arruolamento di volontari europei, i soli in grado di contrastare tale minaccia.

Tratto da: Robert Muller, Ippolito Edmondo Ferrario, Maktub. Congo Yemen 1965 1969, Ritter Edizioni.

 

 

Accadde domani. 28 ottobre 1967. La morte del volontario Guy Leleup

Accadde domani. 28 ottobre 1967. La morte del volontario Guy Leleup

28 ottobre 1967. La morte del volontario Guy Leleup

Leleup era un volontario belga, ma nato in Congo. «Guy morì da eroe il 28 ottobre del 1967 durante le ultime fasi dell’assedio di Bukavu. Rimase a proteggere la ritirata dei suoi compagni e cadde prigioniero. Quando il colonello Schramme con altri uomini giunse in suo soccorso, Leleup, mentre era tenuto legato ad un albero, urlò a Scharamme avvisandolo dell’imminente imboscata e permettendogli di salvarsi. Leleup fu ucciso con un colpo di pistola in fronte. Venne poi decapitato e la sua testa infilzata su una baionetta per essere portata come trofeo dai soldati congolesi dell’ANC. Questa è la vera storia della morte di Guy Leleup del Para Groupe Cobra».

Così lo ricorda in alcuni significativi passaggi il colonello Jeanne Scharamme nel suo libro di memorie Il Battaglione Léopard. Ricordi di un africano bianco: «Di tutti i nuovi provenienti dalla 6a brigata quello che mi impressionò maggiormente fu il maresciallo Guy Leleup. Era un giovane idealista che conosceva perfettamente gli indigeni e ne parlava correttamente la lingua. Solitario per natura, era mal compreso dal suo comandante, il maggiore Noddyn. Ragazzi del genere erano l’opposto di ciò che normalmente viene chiamato un “mercenario”. Non poteva andar assolutamente d’accordo con Bob Denard e il suo lavoro non era mai stato apprezzato; ma è risaputo che i caratteri energici e le nature generose si rivelano nelle avversità (…)». Compresi subito che la morte di Leleup era un fatto estremamente grave: perdevo una delle posizioni-chiave ma anche uno dei miei migliori ufficiali, un vero simbolo di ciò che stavamo tentando di salvare in Congo: la fratellanza nelle armi tra bianchi e neri».

Tratto da: Robert Muller, Ippolito Edmondo Ferrario, Maktub. Congo-Yemen 1965/1969, Ritter Edizioni.

 

 

 

 

Un eroe italiano dimenticato

Un eroe italiano dimenticato

Un eroe italiano dimenticato
 
Pier Giorgio Norbiato, conosciuto meglio come Giorgio Norbiato, è stato tra i migliori volontari italiani presenti in Congo. Nato ad Aosta, era diventato incursore della Marina Militare nella quale aveva prestato servizio per sei anni. Dopo il congedo operò come sommozzatore per una società italiana specializzata nel recupero di navi affondate. Durante gli anni della crisi congolese si arruolò nel 6º BCE e si mise in luce per le doti combattive guadagnandosi anche il soprannome di “Le fasciste” per le simpatie politiche.
Si distinse in alcune operazioni anfibie condotti sui fiumi, terreno evidentemente ideale per l’ex incursore di marina. L’ultima di queste condotte in Congo fu quella denominata Alfa e coordinata da Bob Denard, con l’obiettivo di liberare dalla prigionia sull’isola fluviale di Boula Beba il leader Godefroid Munongo. L’operazione, che doveva essere notturna, per una serie di ritardi avvenne in pieno giorno e fallì. Caduta in un’imboscata, la squadra di volontari si salvò grazie a Norbiato.
La sua storia assomiglia a quella di altri volontari stranieri, se non fosse che dopo il Congo Giorgio partì per un nuovo ingaggio, questa volta nella regione del Biafra in lotta per l’indipendenza dal governo centrale nigeriano. Giunto sul posto gli fu comunicato che non sarebbe stato pagato. Lui decise di rimanere lo stesso e di combattere agli ordini del comandante tedesco Rolf Steiner insieme ad altri quattro volontari europei. Grazie all’esperienza maturata negli incursori italiani trasformò alcuni modesti Chris-Craft in una piccola flottiglia armata con cui riuscì ad assaltare una nave nemica carica di jeep Land Rover e viveri, difesa a sua volta da motovedette armate.
Nel Biafra Norbiato trovò la morte. Ferito e senza possibilità di essere evacuato, si piazzò in una buca con la propria MAG per coprire la ritirata dei suoi, sparando fino all’ultimo colpo e sacrificandosi. Giorni dopo lo stesso comandante Steiner organizzò con pochi uomini una sanguinosa incursione all’aeroporto di Enugu. La notizia della sua morte giunse in Italia grazie allo scrittore e giornalista Goffredo Parise, che si assunse l’impegno di portare alla madre di Norbiato i pochi effetti personali del figlio morto. La sua fama di soldato coraggioso e generoso persistette a lungo nel paese africano. Il suo corpo non è mai stato riportato in Italia. E sempre nello stesso anno il giornalista Renzo Allegri gli dedicò un lungo servizio sulle pagine del settimanale «Gente». Così Girolamo Simonetti lo ricorda nel suo libro Il bottino del mercenario: «Camerata Norbiato, ucciso nel Biafra qualche anno dopo nella difesa di Port Harcourt. Abbandonato dai negri in fuga e rimasto, solo, a difendere la posizione fino all’ultima cartuccia. Non avrebbe potuto fare altra fine e forse è stato meglio così. Coerente con sé stesso, fino all’ultimo. La vita intesa come una singolare emozionante partita col destino. Norbiato, che dopo aver vinto delle fortune a poker, in una sola puntata gioca tutto sulla roulette di St. Vincent. Tanto c’è già pronto un altro contratto mercenario… Ha giocato l’ultima partita a modo suo. E noi, ancora qui a rimestare le carte…».
Nel 1974 lo scrittore inglese Frederick Forsyth pubblicò il best-seller I mastini della guerra, frutto della sua permanenza in Biafra nelle vesti di giornalista; nella dedica del libro ricordò così Norbiato e altri volontari presenti: «A Giorgio, a Christian e a Schlee / A Big Marc e a Black Johnny / A tutti gli altri nelle tombe anonime. / Perlomeno tentammo».
Tratto dal libro “Maktub Congo-Yemen 1965/1969” di R. Muller e I.E. Ferrario, Ritter Edizioni