da Ippolito Edmondo Ferrario | Mag 16, 2023 | News
ASSEDIO MORTALE A MILANO
Immigrazione, campi profughi lager, onlus; ma anche intolleranza, razzismo e attentati. Sono molti i temi, attuali e complessi, messi sul piatto dallo scrittore Ippolito Edmondo Ferrario nel suo ultimo romanzo noir.
Fratelli Frilli Editori
La metropoli meneghina, d’improvviso, viene presa d’assalto e messa sotto assedio da falde violente di extracomunitari che travolgono un’intera città, coinvolgendo famiglie di immigrati spaventati e inermi di fronte a tanto caos.
Ma cosa sta succedendo a Milano?
Solo un uomo, Raoul Sforza, noto banchiere conosciuto per la sua irritante schiettezza e indifferenza verso il genere umano, può rimettere le cose in ordine.
Le istituzioni preposte hanno perso il controllo della città o, più facilmente, non lo hanno mai avuto?
L’opera tratta del tema dell’immigrazione nella sua interezza, partendo dal difficile e doloroso viaggio intrapreso da Morathi, un ragazzino eritreo di 12 anni, e dalla sua famiglia, fuggiti dal loro Paese di origine alla ricerca di un luogo migliore in cui vivere, l’Europa.
La storia comincia in un campo profughi libico e descrive dapprima le atroci violenze subite all’interno dei campi di detenzione, prosegue con il lungo viaggio della speranza, fino all’arrivo sulle coste italiane.
Uno dopo l’altro vengono narrati, in modo molto approfondito e realistico, gli avvenimenti in una lunga sequenza di abusi che sembrano non avere mai fine, perfino al loro arrivo in Italia quando il peggio sembrava fosse stato lasciato alle spalle.
La destinazione finale del viaggio è la metropoli meneghina luogo in cui, la vita del ragazzino, viene nuovamente sconvolta fino a quando il suo destino non si intreccia con quella di Amadi Babatunde, primo nigeriano a divenire agente di Polizia Straniera Locale del capoluogo lombardo.
Nel frattempo, un’ondata migratoria senza precedenti assedia i centri di prima accoglienza, creando a catena numerosi spostamenti verso la metropoli e, mentre i milanesi e le istituzioni soccombono al caos, l’ambigua e controversa figura del banchiere Raoul Sforza sembra essere l’unica in grado di arginare il fenomeno. Privo di ogni morale e dal passato oscuro legato agli Anni di Piombo, il banchiere è la figura chiave della vicenda.
Il sindaco Enrico Villa, carismatico leader del movimento sovranista Libertà di Popolo, detto “il Bomber” (il cannoniere che non sbaglia mai un colpo), è vittima di un oscuro ricatto e, nelle mani dello Sforza, sembra quasi un agnellino in attesa di essere divorato dal lupo.
Poteri forti lanciano la loro sfida tramando vendetta nei confronti del sindaco e, cosa ancora più ardita, dell’unico uomo che può davvero sconfiggerli fino a schiacciarli con ogni mezzo: il banchiere nero.
Assedio Mortale a Milano, F.lli Frilli Editori, è disponibile in tutte le librerie d’Italia a € 18,90 e nei principali store digitali. Pagg. 448. Collana SuperNoir Bross Isnb 9788869436802
Ippolito Edmondo Ferrario, classe 1976, è uno scrittore milanese. Si è occupato dello studio e della divulgazione della Milano sotterranea attraverso numerosi saggi. Ha scritto libri sull’epopea dei mercenari italiani nelle guerre post-coloniali e biografie inerenti agli anni di piombo. Ha pubblicato per Ugo Mursia Editore, Castelvecchi Editore, Newton Compton Editori, Ritter e Ferrogallico. Con Il banchiere di Milano (Fratelli Frilli Editori, 2021), seguito da I diavoli di Bargagli (Fratelli Frilli Editori, 2022) ha dato vita al personaggio seriale del “banchiere nero” Raoul Sforza qui alla sua terza indagine. Per Fratelli Frilli Editori ha pubblicato: Il pietrificatore di Triora (2006), Triora. Il paese delle streghe. Storia, itinerari, curiosità, gastronomia (con Elisabetta Colombo, 2007), Il collezionista di Apricale (2007), Le notti gotiche di Triora (2009), Ultimo tango a Milano (2018) e La Gorgone di Milano (2019) scritto a quattro mani con Gianluca Padovan.
Per interviste all’autore e invio immagini in alta definizione:
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da Ippolito Edmondo Ferrario | Nov 15, 2021 | News
Uno scrittore che non ti aspetti. Vis a Vis con Ippolito Edmondo Ferrario.
Di S. Maugeri
In una tarda mattina di novembre mi ritrovo a percorrere le vie ancora poco affollate del cosiddetto Quadrilatero della Moda milanese. Ho appuntamento con lo scrittore milanese Ippolito Edmondo Ferrario. Mi accoglie in quello che è il suo luogo “eletto” per scrivere, in cui prendono forma i suoi scritti e nascono i suoi personaggi. L’ambiente mi sorprende per eleganza ed eccentricità, tra opere d’arte, motociclette e attrezzi ginnici.
Lo scrittore milanese, classe 1976, di fronte ad una tazza di caffè nero fatto con la moka, senza zucchero, si concede per una lunga intervista alla sottoscritta.
Partiamo dal tuo ultimo romanzo pubblicato, “Il banchiere di Milano”, edito dalla Fratelli Frilli Editore. Che cosa puoi dirci della storia e del protagonista, il banchiere Raoul Sforza?
Le migliori parole che tratteggiano Sforza sono contenute in un passo nel libro: La sua aria altera e sprezzante, unita a un’assoluta eleganza nel vestire, non lo facevano passare inosservato. Nella mano destra stringeva un bastone da passeggio, liscio, nero, sormontato da un teschio di avorio fossile finemente scolpito.
Alto e slanciato, aveva una folta chioma di capelli un tempo biondi e ora color cenere. Scendeva i gradini delle scale del tribunale con passo sicuro. I tratti del viso erano regolari, la carnagione tendente al pallido, la fronte alta. In Raoul si coglieva il portamento di un antico condottiero italiano, risoluto, spigoloso e arcigno. Il suo sguardo era ciò che di lui non si dimenticava facilmente: due occhi profondi e scuri come quelli di un lago alpino in una giornata senza sole. Occhi che mettevano in soggezione. Alcuni sostenevano che aveva un’espressione malvagia per natura.
Per quanto concerne la storia che lo vede protagonista, posso dire che si tratta di un intrigo finanziario e politico animato da personaggi verosimili a quelli a cui le cronache di questo paese ci hanno abituato negli anni. Non ho dovuto inventare molto, al contrario di quello che si potrebbe pensare…
Avendo letto, e apprezzato, questo romanzo ho avuto l’impressione che tu abbia un debole per i personaggi non politicamente scorretti. È soltanto una mia impressione o c’è del vero?
Partendo dal principio che la definizione di personaggi politicamente corretti o viceversa scorretti la trovo priva di senso e fuorviante (naturalmente senza offesa), mi piace creare personaggi che possano sorprendere e che siano il più possibile lontani da schemi e preconcetti. L’affezione ad un personaggio da parte del lettore è la cosa cui tengo di più in assoluto. Riuscire a crearla inseguendo percorsi non convenzionali è fonte di soddisfazione.
Comunque, Raoul Sforza rimane un antieroe…
Sì, nella banalità del termine. Io lo considero troppo poliedrico per essere etichettato in qualche modo. La ricerca di un’eventuale morale non mi compete. Anzi direi che Raoul esula dal concetto stesso di una ricerca di una morale condivisa. Anche qui mi sento di proporre poche righe che meglio di altro identificano la natura di Raoul e che lui stesso riporta a sua volta in quanto suggeritegli da un amico: L’unica cosa che conta è l’audacia dello sforzo e non importa se esso sia finalizzato al bene o al male perché tanto tutto decade, si sbriciola. Si sfascia.
Resta il fatto che il libro sta andando molto bene, visto che nel giro di qualche mese la casa editrice ha pubblicato già due ristampe. Ci sarà un seguito?
Sì, in questi giorni ho consegnato all’editore il secondo libro con protagonista il banchiere milanese. Non è propriamente un seguito, ma una storia a sé stante, complementare naturalmente al primo romanzo.
Qualche anticipazione senza spoilerare troppo?
Il titolo sarà I diavoli di Bargagli.
Nient’altro? L’ambientazione? (Ippolito sorride sornione intuendo che sto cercando di farlo parlare più di quello che vorrebbe…)
Come si evince dal titolo la storia è ambientata anche a Bargagli, piccolo paese dell’alta val Bisagno, sulle alture prossime a Genova. Il paese è stato teatro di vicende particolari legate agli ultimi giorni del secondo conflitto mondiale.
Dunque, Sforza lascerà momentaneamente la sua Milano e l’amata Bonassola per Bargagli?
Assolutamente no. Milano è il suo “quartier generale” e Bonassola il luogo del cuore. Chi ha avuto modo di apprezzare queste due ambientazioni non rimarrà deluso anche nel secondo libro.
Torniamo a te in qualità di autore. Mi sbaglio o non sei uno che fa molte presentazioni?
Non sbagli. Devo dire che non le ho mai amate, pur avendone fatte moltissime, specie negli anni addietro. Con il tempo ho compreso che al di là dell’aspetto promozionale, il mio ruolo non è quello di salire in cattedra o di mettermi sotto i riflettori. Credo che “bastino e avanzino”, come si dice, i miei libri. Qualche presentazione la faccio, ma non più in presenza.
Sei per caso timido?
Un tempo lo ero. Adesso direi tutt’altro, ma credo nel pudore. Non ho velleità di protagonismo. In un’epoca in cui tutti cercano, spesso con affanno, visibilità a tutti i costi, io non sento questa necessità. Non a caso rifuggo l’utilizzo di certi strumenti per riversare sugli altri la propria opinione.
Ti riferisci ai social?
Sì. Li considero uno strumento eccezionale per la promozione dei libri. Da tale uso possono derivare anche rapporti che si instaurano nel tempo, specie con i miei lettori e ciò mi fa solo piacere. Utilizzare questi strumenti per far conoscere il proprio punto di vista, spesso affrontando ogni tipo di argomento, è una pratica che evito. Esiste ancora una vita, reale, fatta di amici, di persone fisiche, con le quali confrontarsi.
Però, tornando alle presentazioni, ho visto che le più recenti le hai fatte tramite le piattaforme, ovvero a distanza. Come ti sono sembrate?
Nelle presentazioni a distanza ho trovato molti aspetti positivi, rispetto a quelle tradizionali in presenza. Innanzitutto, è sempre più difficile per molte persone essere presenti ad un evento il dato giorno e ad una data ora e le cause risiedono negli impegni di ciascuno. La presentazione si trasforma il più delle volte in una fantozziana rincorsa a trascinare più persone possibile nel giorno prestabilito, sperando di mettere insieme una platea dignitosa di spettatori. Preferisco lasciare la libertà, a chi interessato ad un libro, di potersi vedere la presentazione tramite i social, magari nelle ore e nei giorni successivi, nel momento che gli è più congeniale.
Ti capita di partecipare alle presentazioni di altri autori?
Non ne ho il tempo, ma nemmeno la voglia. Non andrei nemmeno alle mie, se è per questo. Ripeto, ritengo che i libri che scrivo siano più interessanti del sottoscritto e non lo dico per una questione di falsa modestia o per fare il virtuoso. Preferisco uscire, farmi un giro in moto o vedermi con gli amici che raccontare ciò che il lettore trova già tra le pagine del libro. Senza offesa per nessuno.
La passione per le moto è evidente visto che ne hai addirittura una nel tuo studio. Hai una passione per le Ducati scommetto? (Una rossa bolognese è infatti presente accanto alla sua scrivania).
La moto è sempre stata il mio sogno fin da bambino e rimane ancora oggi un qualcosa di emozionante. Quella che vedi nel mio studio è stato il promo modello di Ducati che ho posseduto, una Super Sport 900, ma devo dire che le moto mi piacciono quasi tutte, stradali, enduro, sportive, custom. Pur usandola poco, non ne posso farne a meno. Oggi prediligo le Harley Davidson per spostarmi. Implicano un approccio motociclistico per il quale il quale la ricerca delle prestazioni in termini di potenza e velocità passa in secondo piano rispetto all’estetica e al piacere di guida. E poi subentra una questione affettiva. Fu mio nonno Edmondo a regalarmi la prima moto, una Ducati appunto. Lui però era un estimare delle Harley. Durante i suoi viaggi negli Stati Uniti mi raccontava di quando le vedeva e ne rimaneva affascinato. Io da ragazzo non le consideravo neppure e ora mi ritrovo a distanza di più di vent’anni a pensare che invece aveva pienamente ragione. Mi spiace solo che non abbia potuto vedermi in sella ad una Harley Davidson…
Torniamo ai libri. Hai affrontato vari argomenti. Dalla Milano sotterranea, ai mercenari italiani, passando per gli anni di piombo. Come mai?
Semplice curiosità. La curiosità di voler conoscere o approfondire determinati argomenti è alla base della mia attività da sempre.
Qualcuno potrebbe pensare che talune pubblicazioni siamo frutto di tue simpatie politiche. Confermi?
La politica, con le sue dinamiche, è diametralmente opposta alla mia persona. La curiosità e l’interesse, soprattutto dal punto di vista giornalistico e umano, non sono da confondere con altro. Mi si può accusare di aver trattato argomenti che per alcuni sono tabù o di essermi rapportato a personaggi “scomodi” se non addirittura “non degni” di ricevere attenzioni. Personalmente ho sempre scelto liberamente gli argomenti da trattare, senza sentire il dovere di giustificarmi. Tantomeno non ho mai dovuto adattare i miei scritti a esigenze editoriali, di partito o di opportunità. Rispondo solo a me stesso e alla mia coscienza.
Dunque, se ti chiedo di parlare di politica, dell’attuale situazione italiana non mi rispondi?
Preferisco parlare di moto o di altro. (Su questo Ippolito appare irremovibile)
Torniamo alle tue pubblicazioni. Hai pubblicato con varie realtà editoriali, piccole, medie e grandi. Che differenze hai trovato e con quali ti sei trovato meglio?
Il discorso è complesso. Ogni editore ha i suoi aspetti positivi. Vorrei sfatare un luogo comune. Pubblicare con un grande editore non rappresenta una svolta o un cambiamento per un autore. Un medio o piccolo editore, ma con un’ottima distribuzione e attivo nella promozione, può risultare determinante nel successo di un libro, anche rispetto a certi colossi editoriali. E poi c’è il fattore umano che è determinante.
Che cosa intendi?
Il rapporto tra autore ed editore. Negli anni, avendolo sperimentato in modi diversi, mi sono reso conto che il rapporto umano non ha prezzo. Poter telefonare al proprio editore per confrontarsi e parlare reciprocamente senza alcun tipo di problemi è la cosa migliore che possa capitare ad un autore.
Che rapporto hai con i colleghi?
Sono uno che fa vita “ritirata”, se così si può dire. Lo scrittore è un lavoro solitario, almeno per come lo concepisco.
C’è qualche scrittore che ami in modo particolare o al quale ti sei ispirato?
Sono un estimatore di Valerio Evangelisti e di Mauro Corona, due autori contemporanei, molto diversi fra loro, ma eccelsi. E poi amo Buzzati, Malaparte, Eco, gli statunitensi Edgar Allan Poe, Howard Phillips Lovecraft e Robert E.Howard, quest’ultimo padre di Conan e di altri personaggi e cicli memorabili.
Cosa significa per te scrivere?
Dare sfogo alla mia fantasia. Cercare di regalare a me stesso e poi ai lettori momenti di svago, di puro intrattenimento.
Solo intrattenimento?
Dipende. Non pretendo di suscitare riflessioni su determinati aspetti della vita, ma se succede ben venga. La lettura è un qualcosa di troppo personale e intimo per subire condizionamenti. Lo scrittore propone, il lettore legge e trae qualcosa di suo.
Progetti imminenti o futuri?
Ho appena terminato la stesura de I diavoli di Bargagli. Tempo di riprendermi e penserò al terzo romanzo della “saga” del banchiere. Il tutto però senza fretta. Un po’ come quando si va in giro con una bicilindrica di Milwaukee
da Ippolito Edmondo Ferrario | Mar 5, 2021 | News
Il conto alla rovescia è iniziato.
Tra circa un mese arriverà in libreria.
Cinico.
Sprezzante.
Disincantato.
Si chiama Raoul Sforza ed è un banchiere.
Stay Tuned.
da Ippolito Edmondo Ferrario | Dic 21, 2020 | Accadde Domani
ACCADDE DOMANI. 12 DICEMBRE 1969. GIANCARLO ROGNONI E LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA. UNA TESTIMONIANZA INEDITA (Seconda parte)
Fu grazie a Foscari che Siciliano venne introdotto all’ambiente milanese.
Ricordo un ultimo dell’anno trascorso a casa di un camerata milanese, Franco Mojana a cui partecipai insieme a Siciliano e altri. Verso le cinque del mattino ricevetti a casa una telefonata da una comune amica, Ada.
Ricordo che la ragazza mi chiese di poter fare da testimone al matrimonio tra le e Martino che si erano conosciuti quella sera stessa…Al momento non avevo compreso, pensando al mio ruolo di testimone per un incidente accaduto magari nella notte, rientrando dalla festa, e non per le loro nozze.
Sono tutti episodi che ben poco hanno a che vedere con riunioni e organizzazioni di attentati e stragi… Successivamente, vicissitudini personali, portarono Siciliano a tentare anche il suicidio nei servizi di un bar vicino alla sede del Msi a Milano.
A tutta una serie di illazioni mossemi, risposi portando diverse prove concrete.Dimostrai la mia presenza sul posto di lavoro, in banca, il 12 dicembre grazie ad una dichiarazione della Banca Commerciale Italiana, l’istituto per cui lavoravo in una delle filiali situata in viale Campania.
Tale documento fu fondamentale perché impedì all’accusa di conferirmi il ruolo di colui che aveva addirittura posto l’ordigno all’interno dei locali in piazza Fontana; rimanevano però le accuse di aver fornito supporto logistico.
Su come poi si sarebbe svolto il mio 12 dicembre entrerò nel merito successivamente riportando un episodio in particolare.
Approntai una difesa in più punti per dimostrare la mia estraneità ai fatti, ma gli sforzi furono inutili.
Si volle sostenere un sillogismo per il quale, essendo in contatto con i supposti autori della strage, io stesso dovevo avervi preso parte secondo precise modalità logistiche.
Il 28 giugno 2001 presenzia in aula rilasciai ai giudici questa mia dichiarazione: «(…)Quest’ultimo aspetto voglio sottolinearlo perché ha una certa attinenza con questo processo che vede la tesi accusatoria reggersi in larga parte sulle vociferazioni che sarebbero corse in ambito carcerario.
È una banale ovvietà, ma voglio ribadirlo.
Il carcere è un ambiente degradante e corruttore.
Considerate che io, cinquantaseienne, le sole volte che vidi droghe di tutti i tipi fu proprio quando ero detenuto nei cosiddetti carceri speciali. In carcere è facile smarrirsi. Il dottor Maggi mi fu vicino venendomi a trovare, scrivendomi, inviandomi libri, facendomi sentire insomma parte di una comunità viva.
Per chi non dispone di simili ancore e magari non dispone di una salda struttura spirituale è facile piegarsi e spesso sprofondare nella degradazione e nell’abiezione.
Altrettando facile subire sollecitazioni e lusinghe oppure reagire agli stimoli come una sorta di riflesso pavloviano. Ed è quanto mi pare sia avvenuto per alcuni.
Ad esempio Bonazzi. Individuo un pezzo di una lettera che da poco ho ritrovato che egli mi scrisse dal carcere di Nuoro l’8/10/80, proprio nel 1980, e mi dice: “Da parte mia ho preparato un pezzo sulla strage che apparirà su un giornaletto di camerati a firma Quex”.
“È chiaro che la strage è di potere” lo scrive maiuscolo e sottolineato.
“Su questo non ci possono esserci dubbi”.
Ed ora indica come uno fra i responsabili me, che con il potere ho certo ben poco a che vedere.
Spesso, durante le udienze, è stata ventilata l’esistenza di una sorta di incitamento alla violenza da parte della Fenice. Orbene questo periodico era regolarmente registrato, tutti i numeri depositati.
Eppure nessun articolo è stato presentato a sostegno di questa tesi. Segnalo anzi che il motto campeggiante tutte le prime pagine dei vari numeri era quello di Don Bosco, “Nello sport, come nella vita, audaci, forti, leali e generosi” a cui avevamo sostituito “sport” con “impegno politico” e rappresentava, questo sì, il nostro pensiero.
Debbo dire, e credetemi che è assolutamente la verità, arrivati alla conclusione di questo processo, non ho ancora ben capito che cosa io avrei esattamente fatto, quale sarebbe stato il mio ruolo in questo progetto criminale.
Si è molto parlato dei tempi e dei luoghi in cui io ho conosciuto i miei coimputati e il Siciliano.
Mi pare che una parte civile per sostenere una tesi accusatoria mi abbia fatto presenziare negli stessi giorni a eventi differenti con differenti persone siti in luoghi a centinaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro. Io non ho conosciuto Siciliano nell’occasione indicata dallo stesso e ho conosciuto i miei imputati solo in data susseguente a quella della strage. Essenziale però a mio giudizio non è nemmeno questo, bensì il fatto che io non ho avuto, né nella genesi né nella realizzazione di questo attentato, alcun ruolo.
Mi pare quasi che si stia presentando un paradosso assurdo. Da un punto di vista giudiziario, ovviamente non morale, sarebbe quasi preferibile che io avessi assunto un qualche ruolo, magari marginale, per poter, confessando, sfuggire, tramite prescrizione, al giudizio. In realtà però è che non posso e neppur volendo, confessare alcunché. Dovrei mentire benchè non veda che ruolo credibile potrei creare anche in considerazione del fatto che le indagini hanno permesso di appurare che il giorno della strage io ero al mio posto di lavoro.
È infatti presumibile che, in un piano così articolato e complesso, nessuno spazio possa essere affidato a complici non necessari e, nel mio caso, fonte di possibile identificazione.
Fra l’altro credo che l’intossicazione a cui fu sottoposto lo schieramento politico a cui appartengo sia frutto di tecniche di disinformazione e depistaggio attuate a posteriori.
Se la regia vi fu, questa costruzione di indizi attuata dopo i fatti, si rivela molto labile per le difficoltà di distinguere il vero dal falso, sia per il passare del tempo, che offusca i ricordi, sia per la disinformazione che fu attuata ai danni di un’area in anni di forti tensioni politiche e sociali in cui a volte varie persone si sono trovati ad essere involontari attori o comparse.
Il Pubblico Ministero, con un’immagine suggestiva, suggerisce che non credere all’impianto accusatorio equivarrebbe a considerare colpevoli di un complotto inquirenti e magistrati che hanno istruito questo procedimento.
Questo non è vero. Io ho molto apprezzato le indagini di polizia giudiaziale eseguite su disposizione della pubblica accusa tendenti a verificare le mie dichiarazioni. D’altronde non poteva essere differentemente, dato che proprio i risultati di quelle indagini costituiscono larga parte della mia difesa.
Pensavo anzi che il Pm desse maggior credito alle indagini da lui disposte.
Quello che ho molto apprezzato, durante il drammatico interrogatorio cui fu sottoposto Azzi in carcere, è che lo stesso, riaffermando l’astio nei miei confronti, ribadiva di non aver mai fatto dichiarazioni sui miei presunti coinvolgimenti nella strage di piazza Fontana. Ho apprezzato, dicevo, il comportamento della pubblica accusa che rifiutava la scorciatoia proposta dell’avvocato dell’Azzi per uscire dall’empasse e cioè il mio arresto.
Credo che il Pubblico Ministero sia convinto della tesi accusatoria da lui proposta, e non abbia chiesto la mia condanna solo per appagare la legittima soddisfazione di aver chiuso il caso.
Questo però ai miei occhi non fa di lui motore di un complotto bensì semplicemente un uomo che sbaglia, perché sbaglia. Su alcuni organi di stampa questo processo è stato presentato come l’ultima occasione.
Se debbo essere sincero questo è per me motivo di preoccupazione.
Il timore cioè che si colga questa occasione per chiudere in qualche modo il caso trovando dei colpevoli pur che sia. Nei sopravvissuti si sviluppa una forte ritrosia a rivisitare quegli anni, vuoi per un desiderio di cancellazione, vuoi perché tentati inconsciamente di attribuire a sé stessi il ruolo dei buoni, vuoi perché non vogliono coinvolgere persone con cui in un lontano passato hanno condiviso battaglie politiche che spesso portavano a scontri radicali e ciò spiega le eventuali discrepanze o reticenze.
Come ho già detto non posso che augurarmi, anche sotto l’aspetto egoistico di un tornaconto giudiziario, che i colpevoli siano trovati e che io sia giudicato per le azioni da me compiute e non per la fede politica professata, che voi possiate, seppur a distanza di tanti anni, offrire giustizia e che questa sia figlia della verità.
Per concludere questa mia dichiarazione voglio pubblicamente, con pacatezza, ma anche con forte determinazione, affermare che per questo orribile reato sono completamente innocente»,
Il primo grado si concluse per me con la condanna all’ergastolo.
Il giorno che appresi della sentenza vissi un profondo senso smarrimento.
Provai la tentazione di arrendermi, di non riconoscere la giustizia che mi stava giudicando e addirittura di non fare ricorso.
Non mi aspettavo di essere condannato all’ergastolo di fronte ad accuse totalmente inconsistenti.
La prospettiva di rimettere in gioco completamente la mia vita con un mio ritorno in carcere era cosa concreta.
Se una parte di me avrebbe voluto arrendersi, l’altra reagì.Proseguii nel dimostrare la mia innocenza.
Non mollai grazie alla mia famiglia, all’insistenza di Franca, mia moglie e del mio avvocato.
Così, con rinnovato vigore, affrontammo il secondo grado del processo, sforzandoci di smontare, dopo averle analizzate, tutte le varie tesi accusatorie. Fu un lavoro enorme, intenso che richiese uno sforzo notevole.
Trascorsi settimane facendo ricerche, acquisendo articoli e documenti nelle biblioteche, al fine di documentare meglio le date e l’inquadramento cronologico di molti fatti attinenti il processo.
Tusa mi aiutò in questo compito, mentre a difendermi ebbi anche l’avvocato Enzo Fragalà che si concentrò sugli aspetti più politici della vicenda, ma non solo.
I tempi della giustizia furono lunghi, ma alla fine fummo in grado di dimostrare la mia totale estraneità ai fatti. Appresi della mia piena assoluzione dall’estero.
Una parte di me era certa che non mi avrebbero assolto. Non avevo fiducia nella giustizia e quindi decisi che prima di tornare in carcere, se così sarebbe stato, avrei percorso ancora una volta il cammino di Santiago.
Sulla via del ritorno fui raggiunto dalla telefonata nella quale Franca mi comunicava la piena assoluzione.
Fu una vittoria, ma conquistata ad un caro prezzo perché vissi quegli anni, ben undici, con la prospettiva di non riuscire a dimostrare la mia innocenza.
Al termine di questa sofferta vicenda giudiziaria affidai un breve comunicato agli organi di stampa. Con alcune precisazioni misi la parola fine a lungo iter giudiziario.
Giancarlo Rognoni, Ippolito Edmondo Ferrario, La Fenice. Una testimonianza del neofascismo milanese, Ritter Edizioni

da Ippolito Edmondo Ferrario | Nov 26, 2020 | Accadde Domani, News
27 novembre 1979 Assalto alla Chase Manhattan Bank.
Dimitri ed io, nel giro di poco più di una settimana, riuscimmo a pianificare l’azione che ebbe luogo la mattina del 27 novembre del 1979. Ci svegliammo all’alba, verso le cinque. Partimmo tutti da casa di Valerio Fioravanti. Io indossavo la divisa da guardia giurata. Agivo a volto scoperto. Mi presentai in anticipo rispetto all’orario in cui si presentava normalmente Mori. Erano passate le sei. Secondo i piani lui quella mattina sarebbe arrivato puntuale come sempre. Una volta giunto sul posto scesi nel garage sotterraneo della banca e raggiunsi l’ingresso riservato ai dipendenti. A quell’ora c’era un addetto delle pulizie, Giuseppe Bianciardi, e due donne che lo aiutavano. Mi presentai davanti all’ingresso come il sostituto di Mori. Non ci trovarono nulla di strano. Aprirono. Una volta dentro alla banca, manifestai le mie intenzioni di procedere con la rapina. La situazione assunse un che di comico e surreale perché faticai a convincerli di essere un rapinatore. Il fatto che avessi la pistola non sortì alcun effetto. Feci vedere la seconda pistola, dotata di silenziatore, e anche qui l’uomo delle pulizie non parve convinto e ribatté: «Be’, perché nun voi fa’ rumore…».
Alla fine dovetti mostrare le due bombe a mano Srcm per convincerli e farli rassegnare. Le due donne disperate mi dissero che in banca non c’era nulla e che era meglio che me ne andassi. L’uomo invece, comprendendo la situazione, le zittì e si rese disponibile a rendermi tutto più semplice.
«Se è venuto qui in banca è perché è sicuro di trovare soldi» disse loro, e poi rivolgendosi a me si offrì di aiutarmi a trasportare di fuori anche le macchine da scrivere. Io gli dissi che quelle erano l’unica cosa che non mi interessava. Ordinai loro di procedere con le operazioni come facevano normalmente. Si attennero perfettamente alle mie disposizioni. Accesero le luci e tolsero tutti gli allarmi. Dopodiché li feci sedere accanto a me e attendemmo l’arrivo della guardia giurata, il Mori. Per entrare in banca c’erano due porte da oltrepassare, controllate da un sistema di telecamere che ti permetteva di vedere i due ingressi e di conseguenza le persone che arrivavano. Il tutto stando seduti davanti a un monitor all’interno. Le immagini non venivano registrate. Passarono circa venti minuti prima che Mori giungesse. Io chiacchierai con le donne e l’uomo, cercai di scherzare. Lo feci per tenerli tranquilli. Quando Mori arrivò lo disarmai e lui si prestò al gioco come da accordi. Poco dopo sopraggiunsero gli altri del gruppo: Valerio Fioravanti, Alessandro Alibrandi e Giuseppe Dimitri. Massimo Carminati ci attendeva fuori in auto. Attendemmo l’arrivo dei dipendenti. La cosa divertente fu vedere come le loro espressioni sorridenti e serene nel passare la prima porta, mutassero nel varcare la seconda dove c’eravamo noi ad attenderli. Li perquisimmo tutti e li immobilizzammo con del nastro adesivo. In tutto erano quarantacinque persone. La sola a non subire questo trattamento fu un’impiegata bancaria che era incinta. La facemmo sedere su di una sedia, la tranquillizzammo e le offrimmo dell’acqua. Anche Valerio ricordo che mostrò molto riguardo nei confronti di questa ragazza. Con l’arrivo del direttore e del vicedirettore che avevano le chiavi del caveau potemmo procedere. Ripulimmo completamente il caveau, portando via tutto. L’ammontare del colpo fu di circa cinquecento milioni di lire più un po’ di valuta estera e un mucchio di traveller’s cheques. Questi ultimi successivamente furono in parte recuperati dalla polizia. Tutto filò liscio e abbandonammo la banca per fare ritorno a casa di Valerio. Questa rapina ebbe grossa risonanza anche nel nostro ambiente.
Tratto da: Domenico “Mimmo” Magnetta, Ippolito Edmondo Ferrario, Una vita in Avanguardia Nazionale, Ritter Edizioni