8 marzo 2018. La Milano sotterranea alla libreria Parole e Pagine

8 marzo 2018. La Milano sotterranea alla libreria Parole e Pagine

LIBRERIA PAROLE & PAGINE

Giovedì 8 Marzo 2018 ore 18.30 – Corso di Porta Nuova fronte civico 32 – MILANO

Ingresso libero fino ad esaurimento posti

Milano sotterranea

Partecipano gli autori Gianluca Padovan e Ippolito Edmondo Ferrario.
Da più di vent’anni la SCAM (Associazione Cavità Artificiali Milano) è impegnata nello studio e nell’esplorazione del sottosuolo di Milano. Lo scopo non è raccontare quanto fossero belli i Navigli o perché la città fosse paragonata ad Amsterdam o a Venezia, bensì cosa rimane, in alcuni quartieri, di fontanili, torrenti, fiumi, rogge, canali, laghetti e darsene. Delle opere militari che hanno difeso la città fin da tempi remoti, come le stesse hanno modificato il tessuto urbano e quali si possono visitare. E degli ipogei silenziosi dove si celebravano riti prima pagani e poi cristiani, sepolcreti e cripte. Milano è un drago sopito, forse troppo vecchio per reagire, provato dalla novità degli ultimi decenni: i posteggi sotterranei che con le linee metropolitane l’hanno sventrato. Senza giudicare se sia stato un bene o un male, per una città di così antica storia, essere cementificata fino nel profondo.

Locandina dell’incontro presso la libreria Parole e Pagine

Dall’Archivio. Se l’Inquisitore diventa eroe (e detective)

Dall’Archivio. Se l’Inquisitore diventa eroe (e detective)

Se l’inquisitore diventa eroe (e detective)

Ippolito Edmondo Ferrario

Secolo d’Italia, 6 ottobre 2007

Valerio Evangelisti torna a ottobre in libreria con il nono episodio del ciclo di romanzi dedicati alla figura storica dell’inquisitore spagnolo Nicolas Eymerich (1320-1399). “La luce di Orione” (Strade Blu Mondadori, www.eymerich.com) si prospetta come una nuova allucinata e allucinante avventura del domenicano che ha consacrato Evangelisti non solo in Italia, ma nel mondo. Tanto per fare un esempio i suoi romanzi e i racconti sono tradotti in francese, spagnolo (per la Spagna e per il Messico), tedesco, portoghese (per Brasile e Portogallo), croato, serbo, greco, ceco, slovacco, russo, rumeno, ebraico, polacco, inglese. Nonostante l’indubbia fama, Evangelisti da sempre segue un modello di vita piuttosto ritirata. Non frequenta i salotti mondani e tantomeno lo si vede in televisione. Per avere qualche anticipazione sul suo nuovo romanzo lo abbiamo intervistato.

-Qualche anticipazione sul nuovo romanzo “La luce di Orione”. Quale sarà il tema centrale di questa nuova storia?

Eymerich, nel romanzo, parte per ciò che resta dell’impero bizantino, su cui grava la minaccia degli Ottomani. I sovrani, in piena decadenza, contano per il loro riscatto su una creatura che tengono prigioniera, e che forse ha un nesso con misteriosi giganti che ogni mattina sorgono dal mare. L’inquisitore saprà svelare la chiave del mistero.

-L’inquisitore Nicolas Eymerich e lo scrittore Valerio Evangelisti: come è nato questo binomio?

Eymerich rappresenta il peggio di me, la parte oscura. Me ne accorsi mentre collaboravo alla stesura di un manuale di psicoterapia, giunto alla voce “la sub-personalità schizoide”. Decisi di spostare in un personaggio letterario ciò che di patologico esisteva in me.

-Crede che i lettori la identifichino con Eymerich?

No, o almeno capita raramente. Sono di indole tutto sommato cordiale, non spavento nessuno, non ho mai fatto del male ad anima viva. Certo, bisogna conoscermi di persona, e io mi faccio vedere poco in giro.

-Che cosa c’è di Valerio Evangelisti nella figura dell’inquisitore?

Una certa asocialità. Ma mentre Eymerich cerca adepti, e di modellare la società sul suo esempio umano, io tendo piuttosto a farmi i fatti miei. Somiglio maggiormente a un altro mio personaggio, il pistolero Pantera.

-Di recente ha partecipato a Trieste a un convegno sull’Inquisizione. Che cosa ne pensa dell’Inquisizione e del suo operato?

Largamente condannabile, sebbene il Santo Uffizio non sia stato colpevole di tutti gli eccessi che gli vengono attribuiti. Va poi tenuto presente che la Chiesa cattolica tentava di sostituire, con mezzi rudi, l’impero romano venuto meno. Ciò non toglie che coartasse le coscienze. Erede diretto dell’Inquisizione è stato il sovietico Vishinskij.

-La trama narrativa dei romanzi del ciclo di Eymerich si svolge sempre su più piani temporali, tra passato, presente e un futuro plausibile. Come mai?

Cerco di far capire come la personalità tenebrosa di Eymerich varchi le epoche storiche, e domini il nostro futuro ancor più che il nostro passato. Questo è un pericolo serio, che vivo con angoscia. Vedo in giro tanti eredi di Eymerich, sparsi per il mondo.

-L’inquisitore Eymerich, seppur riluttante alla ferocia e al sadismo, non si tira indietro di fronte all’uso della tortura per estorcere confessioni. Nonostante questo, chi legge i suoi libri si identifica inevitabilmente con l’inquisitore dandone un’impronta solo positiva. Come lo spiega?

La violenza di Eymerich è anzitutto psicologica. A volte ricorre alla tortura, ma senza trascendere. Credo che questo risponda a una verità storica, circa l’Inquisizione medioevale: fu quella rinascimentale a fare della tortura una prassi. Quanto all’attrazione esercitata da Eymerich, va considerato che lui è, di norma, molto più intelligente e colto dei suoi nemici. Inoltre tutto è visto attraverso i suoi occhi. L’identificazione è obbligata. Si tratta, per chi sa intenderlo, del “fascino discreto” dell’autoritarismo.

-In questo prossimo libro si parla dell’attuale guerra all’Iraq. Qual è il suo punto di vista sulla questione?

All’Iraq accenno proprio in “La luce di Orione”. Per il commento a quella guerra, cito una frase detta dal ministro napoleonico Fouché, in occasione del rapimento del duca d’Enghien: “Peggio di un crimine: un errore politico”.

-Quale sarebbe quello dell’inquisitore Eymerich?

Penso analogo al mio (e a quello di Fouché, cui somiglia). Forse più cinico.

-Dai suoi libri emergono temi d’attualità quali la scienza che sfugge al controllo dell’uomo, o meglio che viene asservita per scopi malefici. Come si pone di fronte al dilemma scienza o morale?

La morale, purché non superstiziosa o “bacchettona”, deve prevalere sempre.

-Se incontrasse Eymerich adesso che cosa gli direbbe?

Gli direi: “Come mai governi il mondo?”

-Una sua riflessione sull’attualità politica italiana.

Credo che uno scrittore debba occuparsi di questioni etiche generali, non di problemi partitici. Si individua una contraddizione, la si indica al lettore. Questi, al momento di votare, farà le sue scelte. Ho la fortuna di trascorrere in Messico alcuni mesi all’anno. Mi appassiona più la politica di laggiù, con tutte le sue turbolenze, di quella di casa nostra. Almeno, da quelle parti non esistono “Ballarò” né programmi altrettanto molesti, tipo “Matrix” o “Porta a porta”.

 

 

Io ho quel che ho donato

Io ho quel che ho donato

In questi giorni sono stato assediato da alcuni ricordi. Con la scomparsa di una persona, Giovanni, ho messo mano ad un faldone pieno di articoli, recensioni e interviste sulla mia attività letteraria di questi ultimi dieci anni. Sfogliando le pagine ho ricordato serate, presentazioni, amicizie, persone e luoghi. Tra le varie iniziative collaterali, una in particolare mi ha riportato alla memoria il bello di quegli anni oggi lontani. Certamente non ho scritto capolavori della letteratura, ma alcuni libri, seppur in piccola parte, hanno aiutato qualcuno che ne aveva bisogno. In particolare i bambini. Il progetto “Una strega per un Sorriso” nato da me e da Simona Pastor, l’albergatrice della Colomba d’Oro di Triora, aveva come finalità l’aiutare i bambini con problemi oncologici e le loro famiglie. In che modo: regalando loro soggiorni a Triora, il suggestivo paese delle streghe. Negli anni una cosa però mi ha sempre turbato e infastidito. Che qualcuno potesse pensare che dare i propri diritti d’autore in favore di un qualche ente o progetto benefico servisse all’autore a farsi in qualche modo pubblicità. Se così fosse stato, sarei sparito dalla circolazione per la vergogna. A distanza di anni però ho avuto la certezza che nessuno acquistava e leggeva i miei libri per questo motivo…Di questo ne sono felice. Anni fa, tramite Facebook, un ragazzo mi ha scritto. Quella sera, leggendo le sue parole, mi sono commosso.

Lui si chiama Marco. Mi aveva conosciuto all’epoca a Triora. Lui era in vacanza con sua sorella e i suoi genitori grazie al progetto “Una strega per un sorriso”. Sua sorella, che era una bambina, poco più piccola di lui, oggi non c’è più. Anni dopo Marco si è ricordato di me e mi ha scritto. Ha avuto  parole buone. E questo mi rincuora. Lui oggi è un uomo, un atleta e un amante della montagna.

Dopo tante meditazioni ho compreso che l’essenza di tutto il mio lavoro di scrittore sta in una frase, presa in prestito al “Vate”, Gabriele D’Annunzio: “Io ho quel che ho donato”.

Questa è una verità assoluta. Almeno per me.

Ecco perché a breve, con l’uscita ormai imminente di un mio nuovo romanzo, intendo continuare su questa linea. Che le storie allietino o meno i lettori va bene. Che esse aiutino un bambino o la sua famiglia in difficoltà è meglio. A breve, sempre su queste pagine, quando uscirà il libro in questione, fornirò precise indicazioni in proposito.

Una guida alla Milano sotterranea…ci siamo quasi

Una guida alla Milano sotterranea…ci siamo quasi

Ci siamo quasi. Manca davvero poco. Anche per noi autori, Gianluca Padovan ed il sottoscritto, sarà un’emozione. Un anno di lavoro, moltiplicato per due. Non uno scherzo, ma un impegno quotidiano durato mesi. Per non parlare della revisione dei testi avvenuta queste ultime settimane insieme all’editore. Ma ormai vediamo, come si dice, la luce in fondo al tunnel. La data di uscita in libreria dovrebbe essere il 29 marzo. A seguire ci saranno le presentazioni del libro. Per ora non possiamo fornire ulteriori anticipazioni, ma vi invitiamo a continuare a seguirci su queste pagine.

Esplorazione di un canale alla periferia di Milano

 

Particolare del putridarium della chiesa di San Bernardino a Milano

 

Esplorazione degli scavi archeologici nella chiesa milanese di Santa Maria Incoronata

 

Ingresso del putridarium della chiesa di San Bernardino alle Ossa a Milano

 

Momenti di un’esplorazione milanese. In foto Gianluca Padovan

Dall’Archivio. Il serial killer che è in noi

Dall’Archivio. Il serial killer che è in noi

Il Serial killer che è in noi

Ippolito Edmondo Ferrario

Secolo d’Italia, 13 giugno 2006

Intervista a 360 gradi con Andrea G. Pinketts, in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo “Ho fatto giardino”, da oggi in tute le librerie. Tra cronaca, delitti quasi perfetti e politica.

“Quando Michael Jackson era ancora nero io ero ancora bianco…..”. Comincia così “Ho fatto Giardino” l’ultimo romanzo dello scrittore Andrea G. Pinketts da oggi in tutte le librerie (Mondadori, pp.348, euro 16). Lui è il deus ex machina, o senza macchina (visto che la patente gli è stata ritirata), del noir italiano, la Tigre della Malesia in trasferta al Giambellino, il Serpico delle indagini giornalistiche. Lo abbiamo incontrato allo Smooth, il celebre locale di via Buonarroti a Milano che Pinketts ha eletto a sua seconda dimora. Andrea, seduto ad uno dei tavolini, circondato da bulli e pupe, mi accoglie lanciandomi sguardi da veterano di una cruenta guerra alla quale è sopravvissuto e di cui mostra orgoglioso le cicatrici. Camicia fantasia con pin-up disegnate , cravatta gialla, cappellino da pescatore color canarino, pantaloni blu con patta aperta e scarpe di pelle bianca…. Pinketts è una specie di Banana Joe. Quando arrivo mi saluta romanamente e mi presenta ai camerieri come…. Il Secolo d’Italia in persona. Poi la chiacchierata con lui entra subito nel vivo, tra un sorso di birra ed un toscano…..

Il noir è davvero tra noi. Non credi? La cronaca gronda sangue da tutte le parti: sembrerebbe che i fatti di cronaca nera, soprattutto in ambito familiare e che coinvolgono i bambini, siano in aumento. A chi imputi questa escalation di violenza e chi potrebbe essere il responsabile?

Gli assassini ed i serial killer esistono fin dalla notte dei tempi. Non è stato scoperto nulla di nuovo. Euripide con la sua Medea già ne parlava secoli fa. Certamente i mezzi di informazione amplificano le notizie, dandone una rilevanza che prima non avevano.

E’ solo questione di informazione?

Sì, in un caso e nell’altro. Si verificano anche situazioni in cui il fatto di sangue viene in qualche modo stemperato prima di diventare di pubblico dominio. Ciò quando avviene in alcune realtà più o meno omertose.

 

Un bene o un male?

A volte è anche un bene. Io, comunque, fino alla prova di colpevolezza, non sono per il buttare il mostro in prima pagina.

E parlaci ora del tuo nuovo libro, a cominciare dal titolo. Che cosa significa?

“Ho fatto giardino” è una mossa che nel gioco del poker non esiste e che sconsiglio ai principianti di mettere in pratica; essa consiste nel bluff assoluto, alla quale ricorrere quando in mano non hai una carta uguale e i tuoi titanici avversari sono pronti a farti fuori. Ecco che allora “fare giardino” è l’unica mossa per diventare un iceberg e affondarli.

Dove è ambientata la storia?

Tra Milano e Saint-Tropez, ma soprattutto a Milano, in una città in pieno decadimento, divorata e dilaniata dalle boutiques, sempre più in vetrina e quanto mai plastificata. In pratica un plastico di città. Una città, per dirla alla Califano dove “La musica è finita, gli amici se ne vanno….”. Quindi fare giardino nel mio libro vuol dire creare una nuova vegetazione in una metropoli che è condannata ad essere priva. L’unica erba infatti che cresce a Milano è al Parco Sempione, ai giardini pubblici o… nelle canne, E purtroppo, spesso, una cosa non esclude l’altra.

Ma è un romanzo ecologista?

Non esattamente, non ho propensioni buoniste. Da bambino anch’io andavo ai giardinetti a giocare e così ho deciso di riprendere il gioco nella sua forma più estrema per l’ultima puntata di Lazzaro Santandrea, protagonista della storia e perdente di successo.

In “Ho fatto giordino” affronti anche il problema della droga…..

Io sono contrario, preferisco il whisky. E tendenzialmente sono solo a favore della fantomatica Bumba, sostanza che ho inventato per questo romanzo, ma che non si sa se esista effettivamente, almeno fino alla fine del libro. La Bumba, paragonabile alla leggenda metropolitana dei coccodrilli albini nelle fogne di New York, nel libro diventa una sorta di Graal, ma non vorrei essere accomunato a quell’altro scrittore di cui si parla oggi… James Brown. Giusto? Dunque la Bumba è sostanzialmente un contenitore vuoto…..

E’ l’ultima volta che utilizzerai il personaggio di Lazzaro Santandrea, il tuo alter ego?

Lazzaro è morto e resuscitato più volte e ciò fa parte del suo destino, continuare a resuscitare. Questa volta però sarà l’ultima e voglio consegnarlo vivo all’eternità. Non vorrei che fra qualche anno un pirla qualunque lo riadattasse alla sua scrittura profana per farlo rivivere.

Chi è in realtà il detective Lazzaro Santandera?

Lazzaro è sacro e profano, un avventuriero della vita, un detective che indaga su quell’enorme mistero che si chiama esistenza. E ancora è un filosofo da quattro soldi, che è sempre un punto in più de L’opera di tre soldi di Bertolt Brecht.

Il libro è dedicato a qualcuno in particolare?

A Gianfranco Micucci, ex sindaco di Cattolica, compianto galantuomo dall’intelligenza irrequieta. Fu lui nel 1992 a farmi eleggere Detective comunale con il titolo di Sceriffo, dando uno schiaffo morale, e non solo, alle ingerenze camorristiche che si stavano verificando e alla disattenzione di chi avrebbe dovuto occuparsene.

In alcuni tuoi libri è evidente un tuo interesse per l’argomento religioso. Che rapporto hai con la religione?

Ti posso dire però che di questo mio ultimo romanzo ho mandato le bozze in anteprima al Papa per avere la sua approvazione.

 E lui?

Non avendo avuta risposta sono forte del fatto che chi tace acconsente. Quindi è un romanzo della Madonna! Io poi ho una grande simpatia per il Dio biblico e per il suo lato etilico. Dopo il diluvio universale, una volta toccata la terra ferma, Noè si preoccupò di piantare una vigna, cominciando a produrre vino. Ecco perché il bar è anche il mio ufficio….

Torniamo all’attualità. Il problema criminalità è sempre al centro di numerosi dibattiti. Che cosa farebbe Pinketts Ministro dell’Interno?

Dubito che possano eleggermi, ma credo che la prevenzione sia la migliore cura. Punterei dunque di più sull’intelligence nonostante io sia un uomo d’azione; quest’ultima che deve essere sempre meditata, mai ottusa. La prima regola per opporsi alla criminalità è una grande elasticità mentale coordinata da un decisionismo meditato.

Credi che sull’onda delle cronache quotidiane, il genere noir stia vivendo in Italia una seconda giovinezza?

Il noir è lo specchio della società. Attualmente è un genere quasi inflazionato, è un genere-non genere. I miei noir sono infatti “degeneri”. Sicuramente è un o specchio di acque torbide in cui anche Narciso si vede brutto, ma è giusto che sia tale.

Andiamo alla politica. Chi getti dalla torre?

Prodi. Perché rimbalza.

Cosa pensi dello scandalo del calcio?

E’ la cronaca di uno scandalo annunciato. Io ho sempre preferito il rugby.

Progetti letterari per il futuro?

Diversi. Sto lavorando con Massimo Gatti, fotografo e imprenditore, a un nuovo personaggio, un ex-monaco benedettino inspiegabilmente trapiantato per un incidente temporale nel presente.

Puoi darcene un’anticipazione?

Si chiama Benedetto Dalla Doccia e il suo scopo è redimere affettuosamente una strega, facendo al tempo stesso piazza pulita dell’inquisizione e del male che genera.

Dove andrai in vacanza quest’anno?

Quando le saracinesche chiudono per ferie, le persone vanno in vacanza e James Bond va in missione…. Io vado in tournée.

Il Secolo d’Italia, 13 giugno 2006

 

Il Secolo d’Italia, 13 giugno 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dall’archivio. Mercenario e me ne vanto

Dall’archivio. Mercenario e me ne vanto

Mercenario e me ne vanto

Ippolito Edmondo Ferrario

Secolo d’Italia

13 luglio 2006

Nulla è più bello dell’uomo quando avanza. Il soldato che esce dalle file e si dichiara volontario. Il torero che si strappa fuori dal burladero, scaccia i suoi peones e si spiega la cappa. E l’immagine ingenua del cow boy che entra nel saloon, fende l’adunanza pietrificata e si dirige verso il bar. Tutto scricchiola nel cuore degli altri uomini quando uno di loro si fa avanti di due passi, si stacca dalla fila e così foggia intorno a sé una barriera invarcabile di rispetto. Le madri e le fidanzate supplicano e non capiscono che possono avere per rivale la morte. “Non farti avanti! Torna indietro!”. Troppo tardi. Il figlio o l’amante ha udito l’incredibile appello di un altro amore e volge verso le donne un viso d’ombra, uno sguardo vuoto. “Non ci conosce più” urla la madre. È vero. Lui non è più lo stesso, da quando si è fatto avanti. Non ha più un passato. Donne, vi è straniero perché egli ha scelto di nascere una seconda volta ed è uscito, in quell’istante, da se stesso e non dalle vostre viscere. L’eroismo: selvaggia creazione di sé a opera di se stesso, dell’uomo a opera dell’uomo. Così scriveva lo scrittore francese Jean Cau nel suo “Il cavaliere la morte il diavolo” (Ciarrapico Editore, 1985) cogliendo lo spirito più autentico del guerriero, di colui che al di là delle bandiere, abbandona le certezze del vivere quotidiano per andare incontro ad un destino incerto, che presagisce come foriero di morte, ma al quale non può resistere. Questo atteggiamento inconscio, dominato dall’oscuro fascino esercitato dalla signora con la falce, è lo stesso ispirò il romanzo di Daniel Carney “I Quattro dell’oca selvaggia”, pubblicato nel 1977. Cambiano gli scenari, alla spada e all’usbergo del cavaliere di Cau, si preferiscono bombe a mano e mitra, e si va a “cercar la bella morte”, possibilmente lontano da casa. Questi combattenti di ogni epoca e di ogni campo di battaglia rifuggono la vita borghese, l’illusione di poter sfuggire al destino mettendosi al sicuro; il solo modo che hanno per vivere è quello di non fermarsi mai, di non mettere radici. Gli stessi ambienti della destra italiana subiscono il fascino della figura del mercenario; se la sinistra guardava al Che, nel 1968 Pino Caruso cantava “Il mercenario di Lucera”, l’inno antiborghese per eccellenza. È la stessa filosofia dei pistoleri de “Il mucchio selvaggio” del regista Peckinpah che di fronte alla prospettiva di andare incontro alla morte, rispondono: “Perché no?”. Carney con “I quattro dell’oca selvaggia” mette in scena la figura dei mercenari, che ben conosce anche attraverso le sue vicende personali. Lo scrittore infatti nasce in Libano nel 1944 e dopo aver condotto i propri studi in Inghilterra si stabilisce nella tormentata ex Rodhesia, oggi Zimbawe. Il quadro psicologico che l’autore adotta per i protagonisti della sua storia è dominato da un profondo disadattamento nei confronti della vita civile che tutti hanno intrapreso dopo il mestiere delle armi. Ci troviamo di fronte all’atavica difficoltà dell’inserimento dei reduci nella cosiddetta società civile, sentimento sul quale, pochi anni dopo, David Morrell baserà la figura del reduce per più popolare del mondo, John J. Rambo interpretato per la pellicola cinematografica da Silvestre Stallone. Carney però, influenzato da decenni di guerre sul suolo africano, ipotizza una storia che non si discosta di molto dalla realtà: un uomo d’affari inglese, Sir Edward Matherson, che rappresenta gli interessi di un gruppo bancario, chiede al colonnello Allen Faulkner (con il volto di Richard Burton) di mettere insieme una forza mercenaria per liberare Limbani, deposto capo politico congolese e avversario dell’attuale generale golpista Ndofa che con la sua politica di statalizzazione delle miniere di rame sta nuocendo agli investimenti anglosassoni. Inizia così la prima parte della storia, segnata dall’incontro con i vari personaggi che faranno parte della missione. L’universo dei mercenari è variopinto: si va dallo scapestrato playboy, Shawn Fynn tenente pilota e assiduo frequentatore di night (interpretato da un giovane Roger Moore), al capitano Rafer Janders, che sopravvive facendo il corriere per un’organizzazione malavitosa alla quale si ribella, uccidendone atrocemente il rampollo, quando scopre di trafficare in droga. Quest’ultimo poi si porta appresso il peso di un matrimonio fallito e la responsabilità di un figlio ancora piccolo che mantiene in una scuola svizzera. Il rapporto tra padre e figlio, le difficoltà a comunicare l’affetto, mutano con l’imminente partenza del padre per la missione e la sua ultima visita al ragazzo. I mercenari di Carney sfuggono ai dolori della vita andando in guerra; i soldi diventano un pretesto. Ci si commuove nel leggere del mal d’Africa provato dal mercenario Peter Coetzee, con un passato da esploratore nella valle dello Zambesi che lo hanno portato sull’orlo della follia: “Sono vissuto in una grotta, con poche interruzioni per diciotto mesi. Non uscivo mai quando faceva chiaro, strisciavo solo al buio. E uccidevo, uccidevo. Quasi sempre da molto vicino: così li vedevo, sentivo l’odore della loro paura” racconta al suo commilitone davanti a una birra in una bettola londinese. In questi uomini però, dietro la spietatezza mostrata battaglia, si annida una profonda umanità: è sempre Coetzee a rifuggire la sua condizione di predatore di uomini rimpiangendo il ruolo iniziale di guardiacaccia al quale era destinato “…mi ero sempre visto come uno che protegge le cose, non uno che le distrugge”. Ognuno di loro ha in tasca un sogno che lo aiuta a rimanere a galla: Coetzee spera solo di rivedere la sua Africa, Janders con i soldi dell’ingaggio vorrebbe comprare una fattoria e con essa l’illusione di una vita tranquilla insieme al figlio. Lo stesso Tenente Finn, prossimo alla missione, durante una delle libere uscite, s’innamora di una prostituta che rischia di compromettere la sua determinazione. Il distacco dalla donna è sofferto, ma in questo caso il nuovo amore sarà la motivazione necessaria per riportare a casa la pelle. Nella realizzazione cinematografica il regista Andrew W. McLaglen si affidò alla supervisione di uno che la guerra la conosceva bene e ce l’aveva nel sangue: Thomas Michael Bernard Hoare, celebre mercenario irlandese, al quale Carney si ispirò anche per il titolo del libro: infatti il Gruppo Cinque, composto dai mercenari agli ordini di Hoare, aveva per emblema un’oca selvaggia, già adottata dai mercenari irlandesi del diciottesimo secolo. Se Carney per scrivere la storia non aveva dovuto ricorrere alla fantasia, allo stesso modo le vicende cinematografiche si intrecciarono con la realtà, con risvolti incredibili. Il set del film cementò l’amicizia tra “Mad Mike” Hoare e l’attore italiano Tullia Moneta; i due, nel 1981, tre anni dopo le riprese, s’imbarcarono in un tentativo andato poi a vuoto di colpo di stato alle isole Seychelles. Lo stesso Hoare, intervistato a proposito, ironicamente aveva detto: “Avrei dovuto portare con me Richard Burton e Roger Moore, e avremmo avuto un lieto fine”. Naturalmente non si può non guardare ad un’altra figura leggendaria che senz’altro influenzò Carney con le sue vicende rocambolesche: il mercenario Bob Denard, classe 1929, che dopo aver combattuto tra le fila della Legione Straniera francese in Indocina, costruì la sua fama di eroe portando in salvo la popolazione bianca presente in Congo Belga nel 1961 durante la secessione. La sua epopea mercenaria toccò l’apice con la conquista delle isole Comore nel 1976 sui cui mantenne il potere fino al 1989. Carney per i suoi mercenari prevede un’ulteriore prova, ovvero l’impiego sul campo di battaglia attraverso un lancio notturno col paracadute. Il portellone dell’aereo che si apre sul vuoto, l’affidare la propria vita a un pezzo di stoffa tenuto insieme da cordicelle, è sinonimo di una scelta che non ammette ripensamenti. È lo storico Dominique Venner, combattente d’Algeria, a riassumere in poche parole la metamorfosi spirituale che si conquista attraverso il lancio: “Il parà è un iniziato. Ha subito delle prove che fanno di lui un altro uomo. Ha scoperto il segreto dell’ordine. È il depositario del Graal”. I mercenari di Carney cadono uno dopo l’altro, uniti dal medesimo destino, traditi da Mattherson che in nome di repentini mutamenti politici, decide di annullare la missione e di lasciarli al loro destino. Soli e braccati dai sanguinari guerrieri Simba agli ordini del generale Ndofa scelgono la morte in battaglia. Si battono con sprezzo fino all’ultima pallottola, contro le forze nemiche soverchianti per numero. I pochi superstiti che riescono a mettersi in salvo hanno negli occhi la morte dei camerati; tra loro, nella carlinga del Dakota pilotato da un capitano Fynn, morente c’è Limbani, il leader politico, obbiettivo della missione; gravemente malato, è sopravvissuto alla morte grazie al sacrificio del mercenario Mctaggart che dopo l’iniziale diffidenza razzista abbraccia la causa di Limbani giurandogli fedeltà. Sarà proprio quest’ultimo a veder morire il mercenario “razzista” e a piangerne la morte con “grandi lacrime silenziose”. La versione cinematografica del romanzo ha la sua conclusione nel ritorno a Londra di Faulkner deciso a vendicare i suoi uomini e lo farà uccidendo sir Matherson. Carney invece, fedele alla filosofia mercenaria rifuggirà il lieto fine lasciando morire Faulkner sul campo di battaglia.