Marzo 2018, tempo di noir

Marzo 2018, tempo di noir

Sono trascorsi diversi mesi dall’uscita del mio ultimo noir per la Fratelli Frilli Editori. In questo lasso di tempo, per certi versi complicato e costellato da ostacoli, ho dovuto fare alcune scelte. La prima è stata quella di non mollare, di non lasciare perdere. E chi ha orecchie per intendere, intenda. Mi sono visto, permettetemi l’azzardato paragone, come la Fenice che mitologicamente risorge dalle sue ceneri. Le mie ceneri sono state essenzialmente seccature di poco conto, ma pur sempre seccature, alle quali si è posto rimedio. E mentre a fine marzo di quest’anno ritornerò in libreria con una sostanziosa pubblicazione dedicata alla Milano sotterranea, quasi in contemporanea il noir tornerà di prepotenza nella mia vita di scrittore (…e anche in quella dei lettori che decideranno di leggerlo). Manca davvero poco. Sarà un tuffo, cupo e disilluso, nella Milano del 1984; lo farò in compagnia di un personaggio nuovo ed insolito per il suddetto genere. E con lui spero di far vivere o rivivere al lettore (a seconda delle età) atmosfere, luoghi e volti della cosiddetta “Milano da bere”…Per ora vi lascio con un’immagine: un’ auto che ha fatto parte del mio vissuto personale e che troverete nella storia. Essa è un piccolo dettaglio, niente di più. Vi invito a continuare a seguirmi.

Dall’Archivio. Gli stranieri affamati alimentano la criminalità. Intervista a Luciano Lutring

Dall’Archivio. Gli stranieri affamati alimentano la criminalità. Intervista a Luciano Lutring

“Gli stranieri affamati alimentano la criminalità”

Lo dice Luciano Lutring, l’ex “solista del mitra”

Ippolito Edmondo Ferrario

Secolo d’Italia, 7 novembre 2007

Luciano Lutring, il famoso “solista del mitra”, considerato negli anni Sessanta il nemico numero uno di banche e portavalori, ha da tempo cambiato stile di vita e opinioni sulle cose. Con un passato burrascoso alle spalle e un lungo conto con la giustizia completamente saldato, oggi è un padre di famiglia, ha due figlie adolescenti, un divorzio alle spalle e svariati interessi. Al “machinepistol” che un tempo trasportava elegantemente nella custodia di un violino, oggi Lutring preferisce sia i pennelli (è un apprezzato e talentuoso pittore), che la penna. Ha pubblicato fino ad oggi alcuni libri, tra cui un’intensa autobiografia Catene spezzate (Agar Edizioni) in cui Lutring si racconta e mostra tutto il suo lato umano, i suoi drammi, le sofferenze, il suo travagliato cambiamento. Oggi a settant’anni Lutring ha voglia di comunicare, di parlare di quei tempi andati, di esprimere la sua sulla malavita organizzata e non, sull’emergenza sicurezza, sulla paura nelle metropoli. Tanto che nei giorni scorsi lo scrittore Andrea G.Pinketts lo ha presentato al Sud Dinner Bar di via Solferino a Milano, proprio nelle vesti di scrittore. Del resto, soloun giallista scapestrato e “scapigliato”, per dirla alla milanese, come Pinketts, che ha condotto in passato indagini sulla mala rischiando in prima persona, poteva presentare il “solista del mitra” per comprenderne appieno tutto il lato sofferto e genuino di questo personaggio che ha davvero molto da dire.
Luciano Lutring scrittore. Come ha iniziato questa sua seconda, per così dire, carriera?
E’ una storia lunga, iniziata la sera del 1 settembre del 1965 quando mai avrei pensato di finire crivellato di proiettili della Sureté francese. Assieme a due miei complici, un belga ed un algerino, stavamo rientrando a Parigi, quando quest’ultimo disse: “Ho poca benzina nel serbatoio”. Più volte rimproverai l’algerino di avidità. Anche se la macchina sulla quale viaggiavamo era rubata, bisognava sempre tenerla controllata. Fermata la vettura ad una stazione di servizio, nell’ombra del parcheggio sostava una Pegeaut della Polizia criminale poichè quella stazione di servizio era stata più volte rapinata. Costoro speravano che qualcuno ripetesse quella losca operazione per saltargli addosso di sorpresa. Noi non essendo rapinatori di benzinai, non ci facemmo caso. Quando accanto alla portiera trovammo due corpulenti poliziotti che ci chiesero i documenti, l’autista impaurito ingranò la marcia lasciandoli a bocca aperta. L’inseguimento per le vie di Parigi durò qualche minuto, poi un grido dell’algerino ci accapponò la pelle: “Siamo a secco. Li abbiamo alle spalle. Si salvi chi può”. Io essendo seduto sui sedili posteriori mi lanciai fuori della portiera. Gli altri due perdendo tempo a cercare le pistole sotto i sedili. Mentre fuggivo zigzagando nel buio della notte, echeggiarono diversi spari. Un agente inseguendomi, vedendo che non mi fermavo sparò altri colpi e due di questi mi centrarono nella schiena. In un primo istante non sentii dolore. Continuai a fuggire. Altri colpi mi centrarono nella gamba desta e nel braccio sinistro. Persi una delle due pistole. Sparai pure io in alto per intimidire l’inseguitore. Ma questo non mollò la sua preda. Un’ora dopo mi trovarono sotto un portone morente. Fui trasportato in sala operatoria. Per quaranta giorni rimasi in coma. Un’ infezione di piombo era il problema più grave. Alla fine superai pure quella e alcuni giorni dopo mi trasportarono nel tetro carcere della Santé di Parigi rinchiudendomi nella vecchia sezione di alta sorveglianza. Il mio isolamento durò 5 anni e 8 mesi. Poi il processo e la condanna a 20 anni di lavori forzati. Fu così, che iniziai a scrivere e a dipingere per vincere la solitudine e non impazzire dal silenzio che regnava intorno a me. Solo il rumore di porte sbattute e chiavistelli addolciva quel penoso silenzio. Ciò malgrado riuscii a fare uscire clandestinamente su dei rotoli di carta igienica la storia della mia vita. La casa editrice Longanesi la pubblicò con un titolo appariscente Il pianista del mitra. Nel 1966 e il regista Carlo Lizzani, attratto dalla risonanza della cronaca, ne trae un bel film, intitolandolo Lutring, svegliati e uccidi…
Diventò in qualche modo una leggenda nell’immaginario popolare e da rotocalco dell’Italia della seconda metà degli anni Settanta…
La mia vita lo divenne, ma controvoglia. Da piccolo balordo di periferia passavo a venir rappresentato come una gang-star internazionale. Da ladruncolo che spaccò a Milano una vetrina di una pellicceria per regalare a sua moglie Yvonne un cincillà bianco, a “ pericolo pubblico numero 1” che assaltava banche e gioiellerie nelle città più lussuose. Ormai facevo parte dell’informazione più delirante. Un giorno ero considerato un “bandito romantico” che regalava fiori alle commesse derubate, il giorno dopo la primula rossa che sfuggiva alle polizie di tutta Europa. Fiumi di inchiostro attiggevano al mio nome. Ero diventato una fonte di commercio. Molte volte mi accusavano di aver rapinato banche nello stesso giorno e a poche ore di distanza in nazioni diverse.
E oggi, nel novembre del 2007, chi è Luciano Lutring?
Oggigiorno sono un cittadino che rispetta la legge, mi comporto onestamente come debbono fare tutti. Un po’ di tempo fa ho trovato un portafoglio che una ragazza aveva smarrito. L’ho consegnato alla Polizia con documenti e 382 euro di soldi. Non ho ricevuto neppure un ringraziamento.
Che progetti ha per il futuro?
Il mio futuro è ormai pianificato. Vivo con le mie gemelline Natasha e Katisha. Mi sono separato dalla loro madre quindici anni fa ed il tribunale di Verbania mi ha concesso l’affidamento. Ora le “bambine” anno quasi venti anni e prima o poi spiccheranno il volo nel mondo della vita. Di me conoscono tutto. Bene e male spesse volte vanno a braccetto. Sta ad ognuno di noi a scegliere la strada giusta.
Cosa ne pensa del problema “sicurezza”, una vera e propria emergenza politica e sociale che assilla i nostri tempi e i nostri giorni?
E’ un problema troppo grande e non facile a discutersi. Una cosa però va detta e sottolineata: sono troppi gli stranieri disperati e affamati che sguazzano nei bassifondi della delinquenza. E un cane affamato… morde. Uno sciacallo ruba senza rispetto e non guarda se l’individuo che ha di fronte è giovane o vecchio, povero o malandato. Io ho sempre rispettato le regole del codice morale. Vecchi e bambini, pensionati e indigenti li ho sempre rispettati e – nella mia precedente vita – spesso ho allungato pure mazzette di soldi a loro favore. Il mio gesto non era un obolo caricatevole per conquistare un posto in paradiso. Mi è sempre piaciuto più dare che ricevere. Forse il mio cuore mirava ad altri progetti. Ancora oggi mi chiedo: “Se mia madre avesse accettato Yvonne in casa sua, invece di chiuderle le porte, forse non sarei diventato un bandito…”
Qualche anticipazione sul suo prossimo libro. E’ una domanda obbligatoria per ogni scrittore che si rispetti.
L’ultima mia fatica letteraria verrà pubblicata ai primi di gennaio 2008 per Agar Edizioni. Sarà la triste storia di un legionario, tradito nei sentimenti e non solo. La sua avvocatessa di origine “pied noir” cercherà di salvarlo, ma il titolo la dice lunga:L’amore che uccide. Entrambi i personaggi moriranno dopo una lunga lotta con i magistrati che, non accettando l’ O.A.S. del famoso generale Salan in conflitto ideologico con De Gaulle, decidono – come è stato storicamente – di eliminare tutta l’organizzazione. E’ un thriller dolce, nero, rosa e politico, e si rifà a fatti accaduti molti anni fa, quando ero detenuto alla Santé di Parigi.
Ippolito Edmondo Ferrario, classe 1976, vive e sopravvive a Milano, dove si diletta a fare il mercante d’arte. Giornalista e scrittore, ha pubblicato numerosi libri dedicati a Triora, il famoso paese delle streghe, di cui è cittadino onorario, i noir Il pietrificatore di Triora col quale ha dato vita al detective Leonardo Fiorentini, suo alter ego, e Il collezionista di Apricalee le stelle grondano sangue (rispettivamente Fratelli Frilli Editori, 2006 e 2007).
Infine riporto qui di seguito un commento, scritto dallo stesso Lutring, sulla mia intervista. Mi rimane il rammarico di non essere mai andato a trovarlo di persona. Ciao Luciano, ovunque tu sia.
lutring luciano ha detto…Caro IPPOLITO,
ti ringrazio per il tuo articolo sul SECOLO D’ITALIA che ha reso umana la mia immagine.
Si… Ho sbagliato nella mia gioventù diventando bandito per amore…Per quasi sette ani sono stato uccel di bosco in giro per l’europa… Poi la capitolazione a Parigi… Ferito a morte… Duri anni di carcere… Tanta sofferna… Molta disperazione… Tanta voglia di riemergere… Tornare indietro… Farsi perdonare… Rifare una nuova vita…
E’ stata dura, ma ci sono riuscito…
Due grazie Presidenziali mi hanno ridato la libertà… Oggigiorno vivo serenamente sul lago Maggiore con due figlie che il tribunale di Verbania mi ha affidato dopo la separazione con mia moglie… Dipingo e scrivo…Da trentanni non ho preso più neppure una multa… Rispetto la legge e affronto la mia vita verso il viale del tramonto…I miei settantanni mi aiutano a capire molte cose… E’ anche per questo che molte volte consiglio i giovani ad apprezzare la libertà, poichè una volta perduta si rischia di cadere nel vortice della perdizione senza più possibilità di tendere le braccia al cielo…Concludendo, ti mando un cordiale salutone.
Oggi e sempre, vivo o morto ti
ringrazio.
LUCIANO LUTRING ex… ex solista del mitra

Fonte: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.it/2007/11/luciano-lutring-da-bandito-romanziere.html

Dall’Archivio. Branduardi: “Il futuro ha un cuore antico…”

Dall’Archivio. Branduardi: “Il futuro ha un cuore antico…”

Branduardi: “Il futuro ha un cuore antico…”

Intervista con il menestrello della nostra canzone d’autore.

Ippolito Edmondo Ferrario

Secolo d’Italia, 22 maggio 2008

Si inaugurerà ufficialmente il prossimo 26 maggio a Varese la seconda edizione del festival “Insubria, terra d’Europa”, un grande evento culturale dedicato alla cultura, alla musica e all’ambiente di questa porzione di territorio, l’Insubria appunto, che si estende tra le province di Varese, Como e Milano, organizzato dall’Associazione Culturale Terra Insubre. Ad aprire la kermesse sarà il concerto di Angelo Branduardi “Alle radici dell’Europa”, che torna con i suoi più grandi successi per raccontare di un passato lontano, carico di storia e di spiritualità che sembra più che mai tornato di attualità. D’altronde il messaggio del cantautore nato a Cuggiono, in provincia di Milano, classe 1950, è chiaro: “In questi tempi di globalizzazione, se da una parte dobbiamo aprirci ai mondi più lontani, il rischio negativo è quello di perdere la nostra identità e di mutare la globalizzazione in mercatizzazione. Credo che il lato positivo della questione sia imprescindibile dalla salvaguardia culturale delle nostre origini, dei nostri valori e della nostra storia. In pratica non c’è futuro senza radici” ha detto Branduardi raggiunto telefonicamente. Branduardi ha ricordato i suoi esordi negli anni 70, in un’epoca musicalmente prolifica, ma certamente condizionata dalla politica, dall’impegno tutto a sinistra che tendeva a escludere le diversità e chi non faceva della musica una questione di militanza.

“All’epoca, esattamente come oggi, ho seguito, dopo gli studi di Conservatorio, il mio istinto, la mia necessità di ricerca spirituale che non ho mai pensato di mascherare per bruciare i tempi o per avere dei vantaggi. Un po’ come il mio naso che in tanti anni non mi sono rifatto! Nel marasma di allora ero una mosca bianca, ma a distanza di anni il mio lavoro è stato riconosciuto come valido. Ho interpretato quello che sentivo e che vedevo, anticipandolo sui tempi. Si è solo trattato di aspettare, come ogni vero artista dovrebbe saper fare. Vedere oltre”. E con una carriera come quella di Branduardi non si può che dargli ragione, avendo effettivamente dato lo spunto ad un intero filone di cui si può considerare il capostipite. Autentico menestrello dei giorni nostri, Branduardi ricorda con grande nostalgia un altro grande artista dei nostri tempi, da pochi anni scomparso: “Da adolescente compravo i vinili di De Andrè. Con lui ho condiviso un’amicizia personale e la medesima ricerca di tematiche legate al mondo dei trovatori e delle nostre radici lontane. Ho sempre nutrito nei suoi confronti una grande stima. Anche lui era in cerca di risposte esistenziali che guardavano verso Dio. Sarebbe retorico dire che dopo di lui si è sentito un immenso vuoto”. E sull’onda del ricordo di De Andrè, Branduardi dice che attualmente la sua affinità musicale è tutta per Franco Battiato. Il prossimo concerto che si terrà a Varese nel titolo stesso “Alle radici dell’Europa” contiene un esplicito richiamo proprio alle nostre radici, al concetto di identità dei popoli, identità che rischiamo di dimenticare per andare verso un futuro incerto. Un concetto di Europa che è sempre stato sostenuto dalla destra e che risulta ben lontano dall’Europa dei banchieri e delle multinazionali.

La manifestazione, inaugurata dal concerto di Branduardi, è tutta volta a valorizzare proprio il patrimonio culturale dell’Insubria, zona in cui la Lega Nord da anni raccoglie moltisissimo consenso. Abbiamo chiesto a Branduardi che cosa pensa dell’idea di federalismo del movimento di Umberto Bossi: “Non è mio compito insegnare, assurgere al ruolo di maestro come magari fanno altri artisti. Mi sento una persona che ha da imparare su tematiche che non le competono. Piuttosto preferisco affidare alla musica il mio messaggio, il mio modo di vedere le cose. Questo è il linguaggio che mi compete. Giudico positivamente l’idea di federalismo se vuol dire preservare le identità e mantenere vivi certi valori. Non spetta a me dimostrarne la validità, ma è la storia che ne dimostra la positività a cominciare dal pensiero di Cattaneo in poi”.

Branduardi suonerà al Teatro Apollonio, in piazza Repubblica, con inizio alle ore 21.00, proponendo brani dell’album “L’infinitamente piccolo”, seguiti dall’esecuzione, sulle note del suo inseparabile violino, dei suoi maggiori successi come “Alla Fiera dell’Est”, “Cogli la prima mela” e altre canzoni che hanno tutte la stessa impronta di tenace spiritualità senza mai però scadere nel proselitismo o nella cieca fede religiosa.

“Mi sento molto più simile a San Francesco piuttosto che ad un crociato. Ho dedicato al santo predicatore parte dei miei lavori, ma ben pochi conoscono il suo lato più umano e vulnerabile, quello dell’uomo tormentato che era in continua ricerca di domande. In questo aspetto mi sento molto simile a lui, non ho certo una fede a prova di bomba”. Gli abbiamo chiesto quale sia il suo rapporto con Dio: “Direi che è tutto nella musica. Tutti gli etnomusicologi sostengono che la musica fin dai primordi ha avuto a che vedere con la spiritualità, con quel “vedere oltre” degli artisti. I primi musicisti della storia dell’uomo furono gli sciamani, gli stregoni. La musica è una forma di ricerca spirituale che coinvolge il corpo e la mente, che mette d’accordo il diavolo e l’acquasanta. Un vero musicista non può certo definirsi ne laico ne laicista”. Le parole di Branduardi fanno pensare invece a tutti gli artisti che sono molto distanti da questa sua concezione tanto antica quanto nobile del mestiere, ma questo non è per lui motivo di critica nei confronti degli altri: “Ci troviamo in Italia di fronte a tre generazioni. La mia, fatta da artisti cinquantenni, una di ventenni emergenti e un’altra di quarantenni che vengono proposti come eterni ragazzi. Di fronte ai successi enormi di classifica e delle vendite, credo che comunque la qualità ci sia, magari poca, ma c’è. Non si può troncare giudizi netti di fronte a certi numeri. Tra gli artisti della mia generazione stimo tantissimo, come già detto, Franco Battiato, ma anche Paolo Conte e Francesco De Gregori. Francesco è una persona seria, fuori dagli schemi. Magari fin troppo seria, ma va bene così”. Certamente anche Branduardi a proposito di serietà non scherza, nel senso che raramente è protagonista del gossip o di trasmissioni televisive: “Ho una vita sociale come tutti e in questo caso faccio vita mondana. Sono amico dello scrittore Faletti e anche di altri, ma non mi piace stare troppo sotto i riflettori. E poi, se fai sentire un po’ la mancanza al tuo pubblico, credo che poi abbia più desiderio di rivederti”. Fino al 1 giugno saranno ancora visitabili due mostre correlate alla manifestazione: “Volti d’Insubria” e “Il Ducale: Bandiera di Insubria”, esposizioni inaugurate alla presenza del Sindaco di Varese, Attilio Fontana e dal curatore della mostra “Volti d’Insubria”, Mario Castiglioni, e dell’artista Luciano Lutring, il famoso “solista del mitra”, un tempo rapinatore con la passione per le belle donne e le auto sportive, e oggi affermato scrittore e pittore di una certa fama. Castiglioni espone trenta ritratti, ognuno dei quali ha come didascalia il nome del personaggio, la sua professione, ed una piccola frase di corredo: il “fil rouge” della mostra è lo sguardo antropologico che intrappola, al di là dell’obiettivo, storie personali di cittadini insubrici, in un approccio che diventa poi storico e sociale. Attraverso l’attenzione ai cittadini sono illustrate le peculiarità delle province dell’Insubria. Si tratta di ritratti ambientati, collocati nel tempo, ma soprattutto nello spazio. Professioni intellettuali e arti manuali, dove la territorialità compenetra il lavoro e il lavoro forgia la materia.

Per non citarne che alcuni, sono raffigurate le professioni d’acqua, con il guardia parco in barca del Ticino, il canoista olimpionico, il capo timoniere del lago Maggiore, il pescatore del lago, quelle di terra, con l’erborista di montagna, l’apicoltrice, il veterinario di fattoria, e ancora i mestieri di fuoco, dove il fuoco sapientemente incanalato permette la creazione artigianale del vetraio, e persino d’aria, nel volteggiare aggraziato della ballerina. Non potevano poi mancare gli artisti: due pittori, l’uno ex rapinatore, l’altro frate cappuccino e lo scrittore medico condotto.

Dall’Archivio. Pozzetto: negli anni ’70 non facemmo come gli altri

Dall’Archivio. Pozzetto: negli anni ’70 non facemmo come gli altri

Pozzetto: negli anni ’70 non facemmo come gli altri

A colloquio con l’attore a 40 anni dall’esordio in tv

Ippolito Edmondo Ferrario

Secolo d’Italia, 16 febbraio 2008

Ha sessantotto anni, ma non li dimostra. Renato Pozzetto, una delle icone del cinema comico italiano, torna a incantare con la sua comicità surreale in uno spettacolo itinerante intitolato “Nuotando con le lacrime agli occhi” che ha già toccato diverse città italiane e che si prepara ad arrivare al Teatro Sociale di Soresina il prossimo 22 febbraio. L’acclamata coppia Cochi e Renato torna così a far ridere e a riflettere andando a riproporre il vastissimo repertorio di gag, battute e canzoni, alcune delle quali scritte da Jannacci e per l’occasione accompagnate dall’orchestra Godfellas. Abbiamo incontrato Pozzetto nel suo studio nel centro di Milano, poco prima di partire per una tappa del suo spettacolo di cui l’ex ragazzo di campagna così dice: “In Nuotando con le lacrime agli occhi raccontiamo un po’ la fatica di stare la mondo, la battaglia per sopravvivere nella società e le lacrime di molti disperati che raggiungono Lampedusa molto spesso nuotando senza neppure arrivarci”. Una volta accomodatici, accanto ad una moto Guzzi d’epoca (l’attore ha il pallino dei motori) Pozzetto ripercorre gli anni del primissimo esordio praticamente in sordina e di una rapida ascesa.

“Vengo da una famiglia modesta, mio padre era impiegato, padre di quattro figli; sono nato in un periodo, quello della guerra, che ha messo a dura prova le famiglie e la gente, ma che poi è stato lo sprone per tornare a vivere” racconta ricordando la sua infanzia e la sua inclinazione artistica condivisa fin da subito con l’amico Cochi Ponzoni: “Io e Cochi ci divertivamo ad andare suonare in osteria, a fare tardi la sera e a stare con gli amici. Fin da ragazzo mi piaceva l’ambiente dei creativi, dei pittori e delle gallerie d’arte. Ero amico di Crippa, Lucio Fontana, Piero Manzoni. Fu proprio in una galleria d’arte di Milano in via Lentasio che esordimmo con le nostre canzoni: si chiamava La Muffola e la particolarità era che teneva aperto la sera fino a tardi grazie a dei divertentissimi vernissage serali e notturni organizzati dal giornalista Mantegazza. Fu un successo che ripetemmo e poco dopo approdammo al mitico Derby”. Il Derby appartiene alla storia della cosidetta “Milano da bere”, vera icona della voglia di divertirsi dei milanesi degli anni 60’. “Quando arrivammo al Derby conoscemmo un po’ tutti i nostri idoli, musicisti, comici, cantanti. Così insieme a Lino Toffolo, Bruno Lauzi e a Jannacci mettemmo in piedi il mitico Gruppo Motore che poco alla volta iniziò a gestire tutti gli spettacoli del Derby”. Verrebbe da chiedersi se Pozzetto rimpianga la Milano di allora, ma l’attore non è un tipo incline alla nostalgia del tipo “Si stava meglio quando si stava peggio”: “Milano usciva dagli anni della ricostruzione e la città aveva voglia di vivere e di divertirsi. Ma quella è una fase, una delle tante, che fanno parte di una città. Ne meglio, né peggio di oggi. Anzi per i giovani di oggi ci sono molte più opportunità per divertirsi, per avere degli spazi in cui socializzare e magari mettere a frutto il proprio talento artistico” dice Pozzetto forte di una carriera cinematografica così ricca di film di successo che oggi sembrerebbe irripetibile. Qual’è quindi la ricetta del suo successo? “Certamente ho colto le giuste occassioni e sono stato anche fortunato per le offerte che mi venivano fatte. Certo le soddisfazioni sono state tante, oltre ai film, quello di essere primi in classifica con tante canzoni e di raccogliere molto successo in teatro. Naturalmente il tutto ce lo siamo conquistati da soli, senza l’aiuto di nessuno” racconta Pozzetto che non ha comunque peli sulla lingua su certe scorciatoie prese da altri personaggi dello spettacolo. “Negli anni Settanta in molti, schierandosi politicamente in modo aperto, hanno senza dubbio avuto dei favori. Io e Cochi non ci siamo mai interessati di politica e questo per noi è stato un bene. Ancora oggi tra di noi ne parliamo poco, e forse abbiamo pure idee differenti, ma per noi non è mai importato”. Naturalmente questa apoliticità dell’attore non gli precluse il divertentissimo ruolo di protagonista nel film di Steno “La patata bollente”, in cui Pozzetto recitava la parte dell’operaio comunista e sindacalista Bernardo Mambelli, soprannominato Gandhi alle prese con un ragazzo gay, interpretato da Massimo Ranieri, perseguitato sia dai fascisti che dai comunisti. Il film, vero precursore del tema delle coppie gay, mise perfettamente in scena l’intolleranza che anche la sinistra, progressista a parole, provava in pratica verso gli omosessuali. Durante lo stesso governo Prodi i Dico e i Pacs sono stati un’autentica “patata bollente” per la sinistra che ancora una volta ha mostrato la scarsa sensibilità al mondo omosessuale. Il film fu un grande successo, né più ne meno di altri titoli come “Il ragazzo di campagna”, “Un povero ricco”, “Mia moglie è una strega”. Gli chiediamo se in questo momento di grande revival del cinema italiano di quegli anni, anche lui non abbia pensato a girare un sequel dei suoi successi: “Credo che quei film siano stati dei successi perché raccontavano di un periodo specifico, raccontavano storie vere. Riproporre un qualcosa come semplice operazione commerciale, almeno per quanto riguarda me, non mi è mai interessato. E poi, detto fra di noi, i ragazzi di campagna di oggi non ci sono più. Il divario tra i due mondi, quello di città e quello di campagna, è pressochè sparito. I ragazzi che trasportavano il letame con l’Apecar si sono estinti, ma hanno moderni trattori con aria condizionata e autoradio”. Certo, l’idea di tornare a fare cinema non è del tutto esclusa…”Tornerei a girare solo di fronte a un segnale di curiosità nei miei confronti e per propormi qualcosa di nuovo. Le strade già percorse non mi piacciono”. Pozzetto vive praticamente con il cellulare e l’orologio in mano e la voglia di fare il nonno non gli impedisce di continuare a lavorare e a divertirsi: “Oggi più che mai lavoro e ho realizzato diversi miei sogni. Carriera artistica a parte, ho una società che si occupa di trasporti aerei per l’ospedale San Raffaele di Milano. Un lavoro bellissimo che nasce dalla mia passione per il volo!”. Pozzetto infatti, oltre a gestire la società, è pilota di elicotteri e tutto quello che ha un motore lo intriga: “Mi sono sempre piaciute le macchine d’epoca e le moto. Un vero e proprio amore che ho avuto la fortuna di coltivare”. “Ma un sogno nel cassetto le è rimasto?” gli chiedo mentre, sentendolo parlare, mi scorrono di fronte le sue imperdibili gag: “Forse a livello cinematografico ho il rimpianto di non esser riuscito a lavorare con certi grandi registi italiani che nel periodo in cui arrivai io erano già scomparsi, anche se sono riuscito a lavorare con Risi e Lattuada. Era però già un mondo cinematografico che stava morendo. Dunque non voglio lamentarmi”. E sul cinema italiano attuale, Pozzetto è di poche parole…”Sarà una deformazione professionale, ma credo che siano quarant’anni che non vado al cinema!!” mi confida ridendo. “Ma qualche rimpianto, grandi registi a parte, ce l’ha?” insisto. ”Sì, aprire un’osteria sul Lago Maggiore. Non è detto che prima o poi non lo faccia”.

Quando lo scrittore viene raccontato da un altro scrittore

Quando lo scrittore viene raccontato da un altro scrittore

-Lo sai che ho parlato di te nel mio libro sul Ponente Ligure?-

-No…Stai scherzando?! Non so niente- rispondo io perplesso. Mi sembra di cadere dal pero.

-Come è possibile che nessuno ti abbia avvisato?- insiste Alberto

-Credimi. Io non ne so niente. Ma davvero hai scritto di me?-…

 

Per un po’ di tempo io e Alberto non ci siamo sentiti. Persi di vista, si dice. La distanza di certo non aiuta così come l’aver messo su famiglia, o averla ampliata, come nel mio caso. Gli impegni quotidiani, lavoro, figli… si cerca di incastrare tutto alla perfezione o quasi. A volte si riesce, ma qualcosa, in questa continua “mediazione” che è la vita, si lascia purtroppo indietro.

La telefonata dell’altro giorno mi ha riportato indietro di qualche anno. Era da poco uscito per i tipi della Frilli Editore il mio romanzo noir “Il pietrificatore di Triora”, la mia prima incursione nel genere dopo alcune guide dedicate all’entroterra ligure di Ponente. Mi ci ero buttato a capofitto, con l’entusiasmo del pivello, in un’epoca in cui tutti scrivevano un noir. Per la verità anche oggi tutti scrivono noir. Potevo essere da meno? Misi in moto un personaggio strambo, un detective privato, ex gallerista milanese. Dovevo attingere al mio presente lavorativo, quello di gallerista appunto. Non posso giudicare il risultato, ma a qualcuno il libro piacque. L’ambientazione non poteva che essere Triora, la mia ossessione…Questo borgo così lontano da Milano, ma tanto radicato nel mio inconscio. Una passione prossima alla paranoia per la bellezza cupa e suggestiva di un paese legato alla stregoneria e ad oscure vicende storiche.

Il libro uscì e con esso articoli, recensioni, alcune lusinghiere. E poi ne venne una, scritta da un certo Pezzini, avvocato in quel di Sanremo. Costui teneva una rubrica, denominata “Il Fanfulla”, sul settimanale locale La Riviera.

Il pezzo era intitolato “Il lombardo che canta Triora”. Lo lessi tutto d’un fiato. Pensai che mai avevo letto parole più belle, sincere e spassionate su di un mio libro. Ecco qui di seguito l’articolo del 26 gennaio 2007…

Albergo Colomba d’Oro di Triora. Un giovane scapigliato lombardo e la malia di un paese appiccicato alla montagna più alta della Liguria. Colazioni pantagrueliche al mattino, una terrazza buttata su boschi e coppi rosseggianti nel sole d’ottobre. Di notte, nei boschi ancora pieni di caldo dell’estate, una camminata tra suoni, odori e parole evocative. Tutto questo sarà la maratona letteraria che si terrà a Triora il 21 ottobre con la partecipazione di Andrea Pinketts ed Ippolito Edmondo Ferrario. Quest’ultimo ha scritto un bel noir, Il pietrificatore di Triora, che si legge velocemente e tutto d’un fiato. Ricorda molto da vicino il Pinketts di Lazzaro Santandrea quello prima maniera per intenderci. Il bello è che il giovane Ferrario ha creato – a Triora – lui che è lombardo nel midollo più intimo – e precisamente vive a Milano dove gestisce una galleria d’arte neanche troppo modesta – una sorta di festival della letteratura stregonesca. In ciò è stato aiutato dalla giovane patronne dell’Albergo Colomba d’Oro che l’ha aiutato e ne ha ricevuto davvero un’incoronazione solenne nel romanzo. Anche se non ne avrebbe avuto bisogno vista la genuinità della struttura e la bellezza misteriosa ma semplice di questo ex-convento trasformato fatescamente in albergo dalle mille delizie.

Il libro di Ferrario è da leggere. Vi ricordate quando da bambini prendevamo in mano un libro che ci catturava occhi e mente per un pomeriggio? La malia sarà la stessa per chi è appassionato del genere noir condito con fantasia e senso tattico della realtà. Il Ferrario è intraprendente ed ha saputo impastare un intreccio dove la mano esercitata dello scrittore di pezzi ad hoc per Tutto Turismo si mescola maliziosamente con alcune trovate degne di un nuovo astro nascente della letteratura locale.

Il bello è che Triora, Sanremo, Molini e la Liguria delle nostre zone si sentono anche all’olfatto leggendo la pagine di questo libro edito dalla Frilli.

Ciò che colpisce è che promoter delle nostre zone sia proprio un lombardo il quale ha saputo assimilare sotto pelle – in modo davvero stregonesco e quasi misterico – il senso di Liguria. Un personaggio chiave del romanzo sarà proprio un ligure puro come l’acqua dei nostri torrenti, il quale parla pochissimo, a mezzo di frasi sempre tronche e quasi reticenti, ma interviene quando meno te lo aspetti con una bruschezza che risolve tutto. Come i liguri – Ferrario – chissà perché – mi ha ricordato un poco un francese che aveva scritto un libro bellissimo e crudo – ti sembrava di leccare uno scoglio tanto sapeva di mare in certe scene – sulla Puglia: Gli Scorta. Probabilmente sarà un mutante pure lui. Va detto che il ragazzo possiede anche un’innata inclinazione mercantile la quale aiuta molto e lo aiuta nei suoi vernissage letterari. Va bene anche questo. Quello che dispiace potrebbe essere il fatto che un lombardo canti Triora, anziché un ligure: cazzi nostri.

Ci dovevamo pensare prima.

Alberto Pezzini

Torniamo, con uno scarto di undici anni, alla telefonata con la quale ho aperto questo articolo.

Che fare dunque?

Con la sua voce che è rimasta immutata nel tempo, la sua cadenza sanremasca, Alberto mi ha ricordato quegli anni passati, la libertà di vederci, certe serate pazzesche fra Triora, Apricale, con ulteriori incursioni che arrivavano a Finalborgo, passando per Ventimiglia. Quante risate, aneddoti. Si rideva di gusto.

Non c’è stata malinconia nel nostro amarcord, ma consapevolezza che certe cose cambiano. Che si voglia o no. Eppure, nonostante tutto, quel sottile filo che c’era allora e che ci legava non si è spezzato. Magari per qualche anno è diventato sottile, invisibile, ma esso c’era. La curiosità allora è stata devastante. Dopo aver salutato Alberto non ho potuto non ordinare il suo Viaggio nel Ponente ligure. Il confine sconosciuto. Cahier di viaggio, Historica Edizioni, (www.historicaedizioni.com).

Il libro mi è arrivato oggi. Da circa tre ore è qui davanti a me. L’ho sfogliato con avidità, ma con troppa fretta. Ho visto e riconosciuto nomi e volti. Paesi, borghi e cose buone che ho assaporato durante cene conviviali. E poi sono corso a Triora, a leggere quelle pagine dove Alberto mi ha inserito. Ero quasi tentato di riportarne alcuni stralci, ma poi mi sono detto che non è giusto. Piuttosto fate come me, ordinatelo questo libro. Mi sembra che Alberto lo abbia scritto con quella necessità che a volte si ha di imprimere su di un pezzo di carta certe cose. Spesso i ricordi. Per tenerli vivi e forse perché si ha la paura che un giorno andranno persi. E questi ricordi Alberto li ha scritti con il cuore.

La prima presentazione non si scorda mai

La prima presentazione non si scorda mai

Fine estate del 2003. Quindici anni fa. Sembra passata una vita ed in effetti è così. Mi ricordo ancora incredulo quando ricevetti la lettera-invito per partecipare, in qualità di ospite, ad una delle serate dell’edizione Libri di Liguria, storica rassegna dell’editoria regionale che si teneva, e si tiene, a Peagna, nei presso di Ceriale (www.libridiliguria.it).

E ancora più incredulo fu quando la  domenica mattina del 31 agosto, seduto ai tavoli dell’Albergo San Michele di Celle Ligure, sfogliando i quotidiani, vidi il mio nome. Mi sembrava una cosa fuori dall’ordinario. Venivo citato tra gli ospiti della serata.

Di quella prima presentazione ho alcuni ricordi. Il primo è legato al mio arrivo a Peagna, poco prima di sera. Ero giunto con un certo anticipo. Come mia consuetudine all’epoca mi spostavo unicamente in moto. Ricordo un tramonto stupendo sul mare, in lontananza. Io fermo sul ciglio della strada, tempo di una sigaretta e di respirare l’aria fresca delle montagne alle mie spalle. Ero agitato essendo la mia prima apparizione di fronte ad una platea. Il parlare in pubblico non mi sarebbe mai piaciuto neppure negli anni a venire, ma mi ci sono abituato. Questione di timidezza e pudore. Poi non nascondo che in certe presentazioni mi sono divertito e tuttora mi diverto. Ma l’idea di essere di fronte ad una platea, piccola (quasi sempre) o media, un po’ mi infastidisce.

L’altro ricordo è legato al clima di cordialità che mi fu riservato e alle persone giunte ad ascoltarmi. Devo ammettere che dopo le mie prime battute mi sentii a mio agio, merito del Prof. Franco Gallea che introduceva gli ospiti della serata. Tra questi c’era un bravissimo fotografo, tale Enrico Pelos, fra altro autore di ottime guide sulla Liguria (www.enricopelos.it).

Anni dopo il buon Pelos si sarebbe ritrovato a interpretare il ruolo di un moderno druido nei panni di “Pelos il Selvadego” nel mio romanzo “Miracolo a Castelvecchio di Rocca Barbena”, Internos Edizioni (www.internosedizioni.com).

Come dicevo da allora sono passati parecchi anni, ma il ricordo di quella sera, magari un po’ sbiadito, permane. A volte ho l’impressione che tutto sia cominciato lì. In quel piccolo paese, una sera di fine estate, guardando un tramonto. Io e la mia moto.

La Stampa, 31 agosto 2003