5 giugno 1976. Lo scioglimento di Avanguardia Nazionale e la nascita dell’Avanguardia Nazionale clandestina

Lo scioglimento di Avanguardia Nazionale risale ufficialmente al 5 giugno del 1976, quando il tribunale di Roma dichiarò illegale il movimento accusando e processando i sessantaquattro imputati alla sbarra per diversi reati, tra cui ricostituzione del partito fascista, atti di violenza politica e terrorismo. Il relativo processo iniziò l’11 dicembre del 1975, dopo che il 25 novembre dello stesso anno era scattata una maxioperazione in tutta Italia che aveva portato all’identificazione e all’arresto di numerosi tra dirigenti e militanti. Tecnicamente, Avanguardia Nazionale avrebbe dovuto cessare di esistere. A Milano dunque rimanevamo in pochi e nell’ombra a tenere in vita il movimento costretto alla clandestinità. Nel resto d’Italia, ma a Roma in particolare, nascevano sempre più iniziative tanto spontanee quanto dannose perché prive di un disegno politico che ne tracciasse la via.

Era una situazione delicata. Per me proseguire la lotta era una necessità imprescindibile. L’avere poi una vita parallela da gestire mi garantiva al contempo anche non poche emozioni. Questa doppia identità mi faceva sentire vivo…Chi invece, in Avanguardia, all’epoca era magari già sposato o aveva addirittura figli, sentiva tutto il peso delle responsabilità e delle azioni che si facevano.

A quel punto, nella mia ottica di soldato politico, le rapine divennero l’unica via possibile per finanziare il movimento.Quando ne parlai con Ballan ricevetti subito una risposta negativa. Mi disse che non potevo pretendere di cambiare e migliorare il mondo passando attraverso azioni delittuose. Non potevo biasimarlo, ma le contingenze in cui ci eravamo venuti a trovare mi suggerivano di non arrendermi.  Accusavo anche stanchezza oltre che rabbia per quella situazione di difficoltà che ci affliggeva. Non vedevo spiragli. Ero consapevole che la mia posizione contravveniva allo spirito originario che aveva sempre animato il movimento, ovvero quello di frenare determinati atteggiamenti nei giovani più irruenti, di non cadere vittime di provocazioni. Lo Stato ci voleva in carcere, i compagni non accennavano ad abbassare il tiro e tra di noi le armi continuavano a girare. Non era più solo questione di detenerle per difenderci, per una semplice questione di sopravvivenza. Io volevo andare oltre.

I miei progetti però non prevedevano un uso delle armi fine a sé stesso come è accaduto con lo spontaneismo dei Nar. Di fronte al “no” di Ballan mi imposi: che a lui piacesse o no, io avrei formato un nucleo di ragazzi per procedere con le rapine e realizzare un movimento rivoluzionario, o perlomeno tentare di farlo… Se non ci fossimo riusciti, ci saremmo accontentati di azioni di testimonianza.

Tratto da: Domenico “Mimmo” Magnetta, Ippolito Edmondo Ferrario, Una vita in Avanguardia Nazionale, Ritter Edizioni